Ho steso alcune note tempo fa, per sola mia conoscenza e senza alcun altro fine, sull’estetica stefaniniana; le sottopongo alla lettura nel quaderno, per averne commenti e suggerimenti.
“L’ultimo, il definitivo, capitolo della storia dell’estetica certamente non è stato scritto e probabilmente, come per altre e forse tutte le cose umane, non sarà scritto mai; e così è per il linguaggio: le discussioni vive nel passato e vive nel presente lo saranno anche nel futuro, perché si tratta della materia dell’agire e del sentire, e dei loro significati; e in nulla come in questi campi la sensibilità soggettiva continuerà ad evolvere secondo i processi del tempo e della storia, del pensiero e dello spirito; e ciò nonostante ogni impostazione continuerà ad avanzare pretese di essere la vera comprensione e la esatta interpretazione. Ed è umanamente normale che sia così.
Ma un concetto limpido l’estetica nella sua storia ha conquistato; e le discussioni future potranno approfondirlo e perfezionarlo, ma non smentirlo: che il bello non è una proprietà delle cose in quanto tali, ma delle cose in quanto sentite come nostre, in quanto investite da un’emozione interiore, che le trasfigura, e le fa essere in un’anima e per un’anima, ricreate in essa.
E il linguaggio è sì suono, tela, scrittura, gesto, atto, comportamento ecc., ma ciò non rappresenta la sua proprietà, bensì soltanto il suo metodo. La sua proprietà è la sua funzione: esprimere il nostro spirito. Ed in quanto esprime ciò che è stato intuito-pensato-interpretato, è atto donativo di conoscenza e può essere a sua volta arte.
Linguaggio ed arte, linguistica ed estetica, sono al servizio del processo in cui lo spirito ritorna dalle sembianze sensibili all’intuizione dei tipi ideali, risalendo, dalle forme nello spazio e nel tempo, alle loro sorgenti.
Arte e linguaggio portano molto vicino all’Assoluto.
Pur diversa secondo il genio dei pensatori, la bellezza si manifesta, comunque, nella sua essenza di parola che lo spirito pronuncia a se stesso, libera dalla passività del senso e dai limiti in cui l’esperienza vorrebbe imprigionarla; unica, pura, assoluta per lo spirito generante ed interpretante cui appartiene. Se le cose non ci appartenessero, in virtù di un atto di volontà dello spirito che risponde positivamente a una emozione, esse semplicemente e inutilmente si rispecchierebbero in noi: inerti e apatici noi, loro soltanto cose, ombre in uno stagno: immagine e indifferenza. Le cose ci toccano, invece, per rinascere da noi, per riacquistare l’essere e il valore nell’atto dello spirito per il quale e nel quale soltanto esse sono e valgono. Nello spirito acquistano valore di luce, di colore, di suono, di forme, le infinite vibrazioni dell’universo, si trasforma il fluire dei movimenti spontanei nella ordinata e consapevole determinazione armonica dei vissuti. È un’assunzione di responsabilità e contemporaneamente una dimostrazione di volontà e potenza, condizioni necessarie per comprendere ed incidere nella composizione di un quadro significativo: questa la bella e insieme difficile missione del soggetto pensante e senziente.
Ovunque lo spirito agisca si desta quest’armonia, ovunque lo spirito sia inerte l’armonia lascia il passo al disordine non comprensibile. E non comprensibili diventano i fenomeni, di cui perdiamo ogni caratteristica. Arte e bellezza non sono percepite da uno spirito ignavo, che, anzi, si offusca sempre più in un grigiore pigro e ozioso. Quando tramonta la luce del nostro spirito e della nostra volontà, con essa tramontano anche arte e bellezza.
All’opera d’arte chiediamo questo: essere espressione di una soggettività, pulsione che vive di un momento di un’anima, cosa o suono o colore o parola, in cui si rende sensibile un’intimità singolare originale che non possiamo cogliere se non in quel segno concreto, in quell’imagine precisa, in quella nota di colore o in quel ritmo musicale. In quella parola.
Non chiediamo all’arte di darci più di quello ch’essa non sia. Né niente di meno. Essa deve mettere in moto il processo di sensibilizzazione: il resto è compito nostro.
Però se l’arte non può fare i conti se non con la soggettività da cui promana, allora è a questa soggettività creatrice, e insieme anche alla soggettività fruitrice, cioè a noi, che dobbiamo chiedere di fare i conti con i valori più alti – culturali, morali, religiosi, politici – della vita non solo del nostro spirito ma dell’umanità. Più ricca è l’anima da cui nasce dell’arte, più umana è l’arte, più alta la sua significatività, più adatta ad esercitare sulle coscienze una suggestione positiva.
Si ripresenta la responsabilità di onorare una missione. E il compito è sia dell’artista che del fruitore.
C’è un’arte decadente e crepuscolare; arte, non c’è dubbio, in quanto rappresenti onestamente e compiutamente l’illanguidirsi della sensibilità in forme di fragilità morbose, auto-compiacenti; in cui va estinguendosi il senso della vita, eco di una umanità morente per apatia. E c’è l’arte che nasce dalle profondità di un’anima in cui sono andate accumulandosi le esperienze più alte dell’umanità e in cui persistono il vigore della volontà e la pienezza del sentimento. Questa é l’arte che, senza farsi moralistica, resta altamente morale e, senza perdersi o vendersi, ha valenza anche politica e religiosa; eco di un’umanità impegnata e credente. Entrambe le forme, se oneste e non compromesse, vivono senza subire i capricci della moda e del gusto, la loro umanità nell’eternità di una sua condizione.
La filosofia ci ha insegnato, anche, che l’intuizione estetica non è privilegio di pochi spiriti, particolarmente dotati, i quali sono capaci di creare l’opera bella, prerogativa degli artisti di professione; ma appartiene a tutti gli uomini, se ed in quanto mantengano allo spirito il suo fervore creativo. Capovolgendo l’abituale gerarchia concettuale, potremmo dire che ogni uomo è spiritualmente artista, e pochi artisti sono anche artigiani.
Michelangelo diceva che si dipinge col cervello non con le mani; e noi diciamo che anche ogni interprete della bellezza non gode dell’opera d’arte se non in quanto la ridipinge col cervello, ricreandola in sé.
Quella che si dice comunemente arte è intuizione estetica che continua il suo moto di espansione, esprimendosi nel mondo fisico anche per meglio esprimersi a se medesima. Intuizione estetica che si fa linguaggio a se stessa attraverso l’opera. Sono sulla stessa linea e indicano gradi diversi di perfezione, non differenza di natura ma solo eventualmente di intensità e vigore espressivo, il disegno del fanciullo e la tela famosa: Arte non è solo quella che resta, patrimonio prezioso di tutte le epoche, ma anche quella che nasce e muore ad ogni istante uscendo da un’anima con l’impronta di un’anima, che si consuma e rinnova perennemente nella ricerca e nel ritrovamento della bellezza.
E l’opera che la esprime rappresenta un momento essenziale del processo estetico per la traslazione, dal soggetto all’umanità, ch’essa comporta, dell’intuizione originaria.
Intuizione ed espressione insieme d’un momento individuale di vita; attimo dello spirito che si colora di un sentimento che ha una fisonomia unica in ogni istante e in ogni individuo e che si può esprimere ed eternare in forme diverse. L’arte è linguaggio, perché non si intuisce senza esprimere; linguaggio nella sua concreta sorgente di poesia rappresentata dall’interiorità spirituale tradotta senza mediazioni in opera.
L’arte è quindi conoscenza, anzi, il primo grado della conoscenza.”
Giacomo Bernardi
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