Il personalismo di L. Stefanini e l’odierna antropologia filosofica
Non è facile definire o anche descrivere con una certa univocità cos’è oggi l’antropologia filosofica. Esiste una visione filosofica condivisa della struttura essenziale dell’uomo? A mio avviso permane o addirittura si è aggravata la crisi segnalata già da Scheler o da Cassirer nell’autocomprensione dell’umano. Non siamo più capaci, o lo siamo sempre meno di rispondere alla domanda chi sono? Siamo ‘testimoni’ di una sorta di sfaldamento antropologico che permette di parlare con una certa noncuranza di ‘postumano’. Tuttavia, esiste anche una tensione che intende reagire a questo sfaldamento e degradazione cosificante e che in forme molteplici sonda percorsi alternativi per uscire dall’impasse. Fatichiamo, ma è una fatica che merita, per cercare strade nuove per affermare la dignità e il valore unico dell’umano. Forse non riusciamo ancora a trovare forme condivise, nella pluralistica ottica filosofica attuale, per fare emergere in un nuovo orizzonte fondativo il senso dell’umano. Abbiamo quindi un’antropologia filosofica con molti aggettivi che la qualificano, e quindi molte antropologie filosofiche. Nel clima di pluralismo che caratterizza il nostro mondo e il nostro approccio culturale la cosa potrebbe anche essere vista come una positività, in realtà rispecchia una frammentazione che nello specifico dell’umano rischia di diventare frantumazione di un’ottica unificante che permetta un condiviso discorso etico, pedagogico, politico. Occorre ritrovare il paradigma unificante. Dopo la crisi dell’idea di soggetto, questo paradigma potrebbe essere l’idea di Persona. Quest’idea nella sua unità permetterebbe al suo interno una molteplicità di specificazioni che sarebbe la manifestazione della stessa ricchezza e inesauribilità della persona concreta. Dal punto di vista del rigore filosofico, la questione è quella della ‘fondazione’, ma forse proprio in questo contesto siamo costretti a ‘pensare altrimenti’. Se la persona è un originario ontologico è ‘fuori’ della connessione della causalità del principio di ragione ed esige quindi un approccio assolutamente originale. In questo ambito il pensiero del Novecento ha esplorato itinerari nuovi che dovrebbero essere efficacemente ripresi e percorsi. Nell’Introduzione al suo Personalismo sociale, già nel 1952, Stefanini segnalava la crisi dell’ “uomo abbandonato” dei nostri giorni, “che non si sente più contenuto in un’intenzione divina”. Ritrovare il senso di questa ‘intenzione’ non equivale a un’immediata ‘ripetizione’ di un percorso metafisico-teologico, può anche voler dire saggio di una nuova modalità di dire l’umano non a prescindere né a partire dal divino; piuttosto dicendo altrimenti l’umano si può trovare e dire altrimenti il divino. A distanza di trent’anni da quando lessi la prima volta Stefanini, oggi il mio approccio alla sua pagina è mediato dalla mia formazione fenomenologica e dalla prospettiva dialogica. Stefanini appartiene alla stagione filosofica postidealistica del secondo dopoguerra; una stagione particolarmente feconda di maestri e di questioni che a noi oggi sembrano lontane. Era il clima della filosofia ‘italiana’ che ‘ripeteva’ una tradizione e l’arricchiva con una passione di pensiero di cui i discepoli non sempre sono riusciti a essere all’altezza. Per comprendere Stefanini bisogna quindi richiamarsi a questa stagione e tuttavia, nella sua riflessione, interrotta troppo presto, si inserisce già l’apertura alle correnti europee come la fenomenologia e l’esistenzialismo e ai fermenti anche teologici che si manifestavano. Il suo personalismo, proprio se letto anche attraverso queste nuove ottiche, manifesta ancora oggi un’attualità che occorre pensare come un’eredità da riprendere e proseguire. La sua prospettiva personalista ha, a mio avviso, una struttura teoretica capace di ‘reggersi’, maggiore di quella di Mounier, sebbene di questa non abbia la ‘passione’. Due prospettive mi sembrano di notevole attualità: una che si potrebbe definire ‘fenomenologica’ ed è la questione della genesi. L’io sono come l’ineludibile asserto ontologico originario che apre a una comprensione di sé come ‘datità’ a cui si lega la questione del ‘senso del finito’ e l’apertura all’infinito (qui si incentra tutta la prospettiva dell’imaginismo e la sua genesi platonico-agostiniano-bonaventuriana). Erfahrende philosophie, filosofia narrante, contrapposta a quella sistematica e astratta della totalità, aveva definita Franz Rosenzweig la filosofia che parte dal primato dell’esperienza soggettiva. La seconda prospettiva è quella del valore spirituale della parola, della parola assoluta su cui si eserciterà molta filosofia europea, che Stefanini ha in un certo senso anticipato in Italia, sebbene risalga agli anni Venti-Trenta in Germania e Francia. Nella parola la persona manifesta se stessa e il senso della manifestazione è il valore peculiare dell’azione della persona. Se si riprende la nota enunciazione che apre il primo capitolo del Personalismo sociale: “L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone”, ci troviamo di fronte a una complessa argomentazione che collega Stefanini a Scheler per un verso, allo Husserl delle Meditazioni Cartesiane e del II Libro delle Idee sulla Costituzione spirituale, ma anche a quel complesso movimento di idee che è denominato Dialogisches Denken. Stefanini è certamente animato da una ‘passione metafisica’che traduce il messaggio francescano fondamentale della ‘signoria di Dio’. Paradossalmente però, proprio questa è espressione di un dato biblico che nel pensiero del Novecento hanno testimoniato autori ebrei come Rosenzweig, Buber, Heschel o cristiani come Ebner o Guardini. È il dato fondamentale della logica della creazione, anti idolatrica per definizione. Da cristiano Stefanini non può non considerare l’umano dentro questa prospettiva che per lui è un presupposto. Oggi noi fatichiamo a sentirlo immediatamente come presupposto.
Emilio Baccarini
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