R. Pagotto Introduzione a la mia prospettiva filosofica

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RELAZIONE in TRE PARTI
di Renato Pagotto
in occasione della Presentazione della ristampa di

La mia Prospettiva filosofica di L. STEFANINI, Canova 1996
(Treviso, 20 dicembre 1996)

 

Con il mio intervento temo di spezzare quel filo interiore che, ho intuito dalla sua relazione, lega il prof. Rigobello con Stefanini. Anche perché avverto la sproporzione tra la mia incapacità di interprete e la vastità e profondità di pensiero di Stefanini. Un pensiero supportato da grandezza d’animo e arditezza di spirito di un uomo, segnato da profonda e serenamente sopportata sofferenza umana. Mi sento del tutto inadeguato.

Desiderei parlare senza leggere, ma debbo farlo per rispetto della competenza dei presenti, onde essere meno approssimativo.

E’ impossibile capire Stefanini se si legge solo Stefanini, se non si tiene conto delle proposte culturali che l’Europa del primo novecento offriva.

Il positivismo era cultura dominante in gran parte dei circoli scientifici e filosofici. Esso teorizzava dogmaticamente un concetto di esperienza tutta condensata nell’oggettività del fatto. Diceva: la verità si identifica con il fatto stesso (fatto come dato, non quindi in senso vichiano). Stefanini lacera quel dogma e quasi provocatoriamente dice: il mio dogma è l’io. È qui che l’esperienza deve misurarsi per acquistare il suo senso più autentico: solo se diventa esperienza di ciò che io sono nella mia esistenza vissuta. Non quindi esperienza di coscienza nel senso psicanalitico freudiano, che del positivismo è derivazione e che della coscienza registra soltanto certi meccanismi inconsci. Non è solo all’accadere dei fatti ma al modo personale e consapevole di viverli che il significato di esperienza va esteso.

In senso opposto al positivismo andava imponendosi poco dopo in Italia l’idealismo, con la pretesa di porsi come unico sistema di pensiero al di sopra di ogni altro modello conoscitivo. Esso teorizza la totalità ma sacrifica il singolo nei meccanismi della ruota di una storia sottoposta al regime della necessità dialettica, in cui all’individuo è concesso il ruolo di comparsa, senza propria identità. Stefanini infrange quel sistema di pensiero a partire dall’interno di esso: dalla concezione della storia. Vede nella storia il luogo sì di un’incarnazione dello Spirito nella corporeità, ma di uno Spirito che non è un’Idea assoluta impersonale, bensì la persona stessa del Verbo. Un Verbo della carità altrettanto importante del Verbo della Ragione assoluta.

Abbiamo così due luoghi di confronto: significato di esperienza positivistica ristretta ai fatti e concetto di storia idealistico.

 

 

 

Ma bisogna anche rendersi conto di ciò che rappresentano le spinte irrazionalistiche della prima metà del novecento, volte alla distruzione di ogni modello di razionalità, spesso in nome di un libertarismo privo di ancoraggi ideali, per apprezzare il recupero totale che della ragione fa Stefanini. In nome della ragione, in nome della libertà, in nome della fede (poi vedremo come la intendeva lui).

Bisogna rendersi conto anche di ciò che stava diventando l’ideologia marxista (figlia dell’idealismo) dopo i successi del ’17 sovietico, penetrando tra le masse operaie.

In area cattolica, bisogna rendersi conto di ciò che rappresentava il dettato della neoscolastica, avallato da encicliche papali ma ormai filone inaridito che non faceva più presa negli animi degli stessi credenti, per misurare la novità che Stefanini introduce nel trasferire le astrattezze categoriali sull’essere all’essere incodificabile ed unico della persona (una rivoluzione ontologica copernicana).

Bisogna rendersi conto da ultimo della temperie esistenzialista che dilagava nell’Europa come forma di reazione, spesso scomposta, alle precedenti filosofie. Di quell’indirizzo cui Stefanini fu uno dei primi portavoce al di qua delle Alpi. La sua sensibilità di uomo contemporaneo aperto a tutto quanto conferisce libertà e apertura all’essere umano (e la modernità è carica di queste esigenze) lo obbligava a sceverare il meglio anche dell’esistenzialismo, senza perdere la priorità delle esigenze razionali.

 

Il vuoto ideologico cui egli è giunto è come la condizione invocata inconsciamente proprio dagli uomini del nostro tempo. Ma il vuoto ideologico mette paura. Ci lascia senza padri. La filosofia della persona è un vivere senza schemi, senza reti di protezione, ognuno con se stesso e con gli altri, senza un’etichetta di scuola accademica di riferimento, senza la copertura ideale di qualche nome eccellente o qualche istituzione cui servire. È quel vuoto che consente di divenire allievo di tutti, soprattutto della propria esperienza. Consente anche la libertà di relazionarsi con chi ci pare, se questo favorisce la nostra crescita interiore (nel commento critico accenno al tema della predilezione), senza il giogo di egualitarismi alienanti.

Consapevole del crollo dei miti (U. Spirito) e della crisi della ragione (Horckheimer) ha intuito che bisognava aver il coraggio della novità senza perdere il sapore dell’antico. Una novità nel segno della libertà. Tale libertà non era possibile in quei sistemi che con le loro premesse o esclusivamente oggettivistiche (positivismo) o panlogistiche (attualismo gentiliano) o storico-materialistiche (marxismo)  o pragmatistico-utilitaristiche (pragmatismo americano) o irrazionalistico-vitalistiche (Nietzsche e dintorni) o essenzialistiche (neoscolastica) davano al singolo uno spazio troppo predefinito oppure ignoravano i limiti che ogni persona deve pur sapersi costituire nell’attuazione della propria libertà. Da ogni scuola, per Stefanini, occorreva saper trarre ciò che di valido offriva per lo sviluppo della libertà della persona.

Qui prende consistenza quel tratto di pedagogia, nuova rispetto agli sperimentalismi in voga, che fa di Stefanini il pioniere che dà il segnale della vera modernità di cui abbiamo bisogno. Starei per direi, della postmodernità, se prendiamo atto, oggi più di ieri, che ogni sistema di filosofia ben confezionato e qualsiasi forma di ideologia cadono a pezzi di fronte all’istanza di autenticità di essere sempre e soltanto se stessi.

Userei allora una metafora, se mi è lecito: la metafora del Persèo. Quell’artista geniale e rissoso che fu Benvenuto Cellini, racconta di sé nell’autobiografia, che giunto al momento critico della fusione della lega di metallo per la statua in bronzo del suo Persèo, si trovò tragicamente costretto a correre per la casa ad arraffare piatti, scodelle ed ogni oggetto di stagno che gli veniva a tiro e gettarlo nella colata incandescente che minacciava di compromettere il compimento dell’opera. Il capolavoro gli riuscì ma a prezzo di tutti gli oggetti preziosi di casa, trasformati ormai in quell’oggetto d’arte che ancor oggi ammiriamo a Firenze. Analogamente Stefanini utilizza tutto ciò che a suo giudizio critico può confluire in un discorso che lasci la persona, o meglio, l’esperienza personale al primo posto (anche nel commento che appongo in questo volumetto privilegio l’espressione esperienza personale perché meglio evidenzia il recupero, diciamo umanistico, del termine positivistico).

Della trasformazione che ha impresso al significato idealistico della storia già abbiamo detto. Quanto alle spinte irrazionalistiche, variamente rappresentate nel primo Novecento, cogliendo le istanze del vissuto concreto intriso di richiami libertari, se non anarchici, Stefanini non rinuncia al vaglio della razionalità.

Il messaggio di giustizia sociale marxista che ha impregnato di sé tutto il secolo, con esiti totalitari umanamente insopportabili, trova in Stefanini il senso di dignità umana da privilegiare nel rapporto sociale. Del rapporto sociale la persona, nel realizzare il proprio sviluppo, è liberamente e non strutturalmente partecipe.

Quanto al disagio dell’esistenzialismo, che rispecchiava le angosce e le disperazioni degli spiriti di fronte al crollo dei miti e all’imperversare delle guerre, Stefanini, senza sposarne le mode, lo interpreta dall’interno (significativo il suo apprezzamento del senso del mistero di Marcel).

Spunta allora, con tutti questi ingredienti speculativi e non, la tematica della persona. Questo bistrattato ed equivocato termine di persona si arricchisce in Stefanini di razionalità e di bellezza. Razionalità e bellezza che in Stefanini, più che nel rapporto tra fede e ragione, preferirei collocare all’interno del rapporto fede e libertà. È il suo continuo richiamarsi all’esperienza personale, che mi induce a pensare così. Nell’esperienza personale la ragione costruisce il proprio statuto argomentativo, senza lasciarsi dominare dal miraggio della logica che fa della necessità un luogo inespugnabile (Necessità di cui, nella Alcesti di Euripide si dice, “nessun farmaco è più forte”). Ricorso alla necessità che fa da rifugio alle debolezze intrinseche della ragione umana e surrettiziamente celate a se stessi. L’esperienza personale è intrisa di incertezze e di possibilità, di memoria e di capacità di scelta sul futuro. La vita è scelta creativa, non pura consapevolezza di un destino cui adeguarsi. O, se vogliamo, ogni scelta umana si rifà certamente ad un ordine supremo, ma che non è né stoico né attualistico, bensì incentrato nello stesso soggetto personale, in sintonia con un Logos rivelatosi nella storia e che anche ora, anche in questo momento in cui sto parlando, continua a fare la storia adattandosi alla nostra libertà, non sovrapponendosi ad essa. I cosiddetti pensieri forti ed inespugnabili che ancora affiorano in qualche accademia (penso a Severino), sono più miraggio di magie logiche che attendibile soluzione ai vivi problemi innescati dalla modernità. Sono le posizioni delle cosiddette filosofie dell’identità contro le quali cerca di argomentare nel suo ultimo saggio V. Possenti in “Filosofia” di dicembre parlando della persona. Argomentazioni che Stefanini farebbe sue in parte sì e in parte no.

Ciò che sorprende, però, sempre in analogia con l’operazione del Persèo in cui i piatti si fusero e scomparvero nella statua, è che sistemi o indirizzi culturali rielaborati e rifusi non ritrovano più se stessi nell’opera di sintesi stefaniniana. Egli ha creato non un sistema contrapposto ad altri sistemi ma, come si diceva, quel vuoto ideologico, in cui le astrazioni e gli schematismi perdono ogni vigore.

Il positivista non si riconosce più in un’esperienza che ha perso i connotati dell’oggettività sperimentale.

L’idealista non si riconosce più perché il suo slancio speculativo è diventato altra cosa: non l’Idea assoluta ma l’assoluto della persona.

L’irrazionalista non si sente a suo agio con uno che parla della ragione con tanta convinzione da farne il costitutivo dell’essere umano, emancipato dalla mitizzata spontaneità vitalistica.

Il marxista non si riconosce perché il suo credo sociale è trasfuso in un senso della giustizia che fa dell’amore, e non dell’odio, la prima forza che muove la storia. Tutt’al più il marxismo può arrivare ad una collettività, mai ad una comunità.

Il neoscolastico non si ritrova più lì ove la persona Assoluta Trascendente, e per di più incarnata, ha preso il posto del suo motore immobile.

Anche l’esistenzialista ateo, che più di tutti proclama il suo ateismo per affermare la propria libertà totale, seppur angosciato nel suo limite, non sente in Stefanini gli accenti disperati della sofferenza umana e i toni enfatici di una libertà tanto compiaciuta di sé quanto inconsistente. No, perchè in Stefanini tutte le posizioni speculative del suo tempo trovano posto in lui, contemperate dal buon senso di una educazione materna che gli ha consentito di guardare il mondo, l’interiorità umana e ciò che per sua natura ci trascende, con lo sguardo semplice di chi tutto valuta, pesa e sceglie con il più incomunicabile segreto: l’equilibrio personale.

Qui però tocchiamo il senso più intimo della filosofia stefaniniana: il rapporto con l’Assoluto. Stefanini l’ha magistralmente delineato nelle due dimensioni cui pervenne con massima chiarezza verso la fine della vita: le dimensioni dell’Assoluto dell’arte e dell’Assoluto della fede: due poli entro cui l’assoluto della persona, e non le astrattezze categoriali, conferisce contenuto e sapore alla vita. La vita e il senso della vita sono affidati alla persona. Stefanini si rendeva conto del vertice raggiunto con tale posizione. Da un lato poteva apparire arbitrio e presunzione, ma d’altro lato è l’unica risposta ancora possibile alla congerie  delle molteplici formulazioni del pensiero moderno, frantumatosi in mille rivoli. L’unica risposta per non tradire l’uomo moderno e contemporaneo. Una risposta alla confusione e allo smarrimento della modernità, non per rigettarla, ma per sanarla dal di dentro.

II PARTE

A questo punto, sentendo spesso ritornare il termine fede qualcuno giustamente si chiederà il posto e il che cosa della fede stefaniniana.

Dove finisce la scienza (ha i suoi limiti, procede con il metodo delle ipotesi, ha conoscenze legate ai fenomeni e lascia da parte le essenze…) comincia il mistero. Qualcuno ha detto che un giorno non ci saranno più misteri per la scienza (per ora mistero è solo l’ignoto). Costui ha una fede: fede nella scienza. Altri hanno detto che il mistero resterà sempre, anche se sempre più ristretto per l’avanzata della scienza.

Noi abbiamo stima, apprezzamento, riconoscenza ed anche fiducia nella scienza. Ma non fede ingenua nella scienza. Crediamo al mistero.

Dunque, dove finisce la scienza comincia il mistero. Di fronte al mistero l’uomo non si rassegna. Tenta di penetrarlo, pur sapendo che non lo conoscerà mai fino in fondo.

Conosco tre modi di procedere di fronte al mistero: la poesia, la filosofia, la fede (Hegel metterebbe la filosofia al gradino più alto, dopo l’arte e dopo la religione). La poesia ha tanti atteggiamenti ma tutti girano attorno a sentimento e fantasia (il naufragar m’è dolce in questo mare: fantasia che si compiace delle proprie creazioni, del crearsi infiniti mondi). Un altro modo è la filosofia che procede mediante ragionamento. Non che alla filosofia manchino sentimento o fantasia o desiderio (Levinas). Ma prevalente è il ragionamento che analizza con logica argomentativa, tentando delle sintesi di linguaggio usando delle varie conoscenze, sia della scienza per andar oltre alla scienza (con tutta la precarietà di questo andar oltre) sia del sentire comune per dargli forma e coerenza. Ma la filosofia è, come si dice, esercizio del senso critico. Non produce mai una filosofia condivisa da tutti. È una congerie di concezioni, spesso una contro l’altra. È, insomma, una babele di teorie.

Un terzo modo, in cui non c’è prevalenza di fantasia o sentimento, né prevalenza di ragionamento critico, è infine la fede. Fede come ascolto di una parola che si percepisce non essere parola soltanto umana ma venuta dalle stesse profondità del mistero che ci avvolge. Al di là di tutte le voci umane, che offrono una qualche luce sul senso della vita, al di là delle risposte limitate della scienza, al di là delle commozioni suscitate dalla poesia, al di là delle argomentazioni ragionate della filosofia, si apre uno spazio per l’ascolto di una voce che non assomiglia a nessuna delle altre voci. È la voce che viene interpretata dal credente come la voce che ci porta nel cuore stesso del mistero. Con parole umane ma con un accento sovrumano che assomiglia piuttosto alla risposta che il cuore, più che la mente umana, riconosce e sente come risposta per sé, per sé stessi. Stefanini direbbe: per il sé come persona.

Una risposta che non è soltano commozione poetica o perspicacia di ragionamento ma apertura ad una relazione con qualcun altro che è persona come noi e con noi instaura un rapporto di libero scambio di intimità; che nessuna intimità soltanto umana riesce ad eguagliare. Qui si apre lo spazio oltre la siepe non tanto per immaginare infiniti mondi; qui si apre il massimo di criticità, che possiamo chiamare criticità di ascolto.

Criticità per non arrestarsi alle suggestioni del sentimento estetico o alle seduzioni della necessità logica (che poi si impantana nella babele delle logiche contrastanti: quale logica è incontrovertibile dopo Gödel?); per non confondere la voce del mistero con altre che gli assomigliano, massimo di criticità per esercitare lo “scetticismo” all’interno di una razionalità compiaciuta dei propri risultati sillogistici o all’interno di fedi apparenti di pura consistenza sociologica, ottuse alle esigenze di libertà della persona. Criticità che si apre lo spazio all’ascolto unico che solo la persona, nel contesto delle proprie esperienze, riesce a contraddistinguere come ascolto cui aderire per fede, pur se accompagnata dalla ricchezza del sentimento e della fantasia, e dalla esigenza di una razionalità compiuta.

III   PARTE

Molti sarebbero gli accostamenti con autori del nostro tempo con cui potremmo confrontare Stefanini: Gandhi, Edith Stein, Berdjaiev e tanti altri. Tutti con spiccato senso della libertà e con rigoroso senso della relazione con gli altri. Tutti al di fuori di schematismi precodificati. Nuovi nel loro evento di pensiero e di vita. Sarà il lavoro cui ci accingeremo come fondazione e a cui speriamo trovare altri disposti a intraprenderere quest’avventura umana che un trevigiano illustre, immeritatamente dimenticato, ci indica come l’unica valida: imparare ogni giorno di più a non tradire noi stessi. In noi c’è in germe l’albero con il suo frutto che attende. Tale frutto non può che essere il modo personale di realizzare la nostra libertà, con le filosofie o con le mode di pensiero di oggi, senza adottarle ma senza trascurarle per quel tanto di verità che ogni persona sa trovarvi.

Il termine persona ingenera abitualmente equivoci, luoghi comuni, fraintendimenti di ogni genere. Stefanini ha il merito di avercene dato le linee paradimatiche: un edificio concettuale che fa da fondamenta per ulteriori sviluppi. Ricoeur ha saputo articolarne molteplici aspetti, con dovizia di immaginazione lessicale, sì da ingenerare un senso di dispersione. A mio avviso, conviene non perdere di vista le costanti che Stefanini ha delineato sul piano ontologico, gnoseologico, estetico, religioso, psicologico, pedagogico e sociale. Stefanini non ci obbliga a ripetere la sua terminologia ma la sua terminologia rappresenta la griglia lessicale di riferimento quasi insostituibile per applicazioni  e sviluppi del tema della persona.

Con compostezza e dignità di pensiero, nel vuoto di sicurezze sistematiche del nostro tempo, Stefanini tocca le profondità del cuore senza tradire le esigenze della ragione (al punto che nemmeno Pascal gli pareva sufficientemente rigoroso).

La sua filosofia non è una soluzione ai nostri problemi ma un ragionato, argomentato ed esemplare confronto/scontro con tutte le filosofie più in voga del nostro tempo,  tale che a noi, a quarant’anni dalla sua scomparsa, possiamo interpretarlo come un invito. Un invito non solo a coglierne l’ispirazione di fondo e non tanto ad imitarlo (nessuno è vera persona nella pura imitazione) quanto piuttosto a non dimenticare che la strada della libertà è tracciata principalmente da nomi di persone. Non da partiti, da istituzioni, da ideali astratti o da sistemi filosofici che hanno appena il compito di segnalatori di confini. Ognuno cioè può raccogliere l’invito a far sì che al suo nome non sia dato il significato di un’etichetta per quanto distinta o di un ruolo sociale per quanto elevato, ma il nome di una persona. Solo le persone si incontrano. Grazie!

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