Dal libro: Giacomo Bernardi, La tragedia e la speranza – Discorso sulla conoscenza, Armando editore, Roma 2009 proponiamo due premesse.
A 2 1 La grandezza della filosofia
La filosofia talvolta sembra un faticoso percorso in salita, uno sviluppo progressivo e continuo, e senza traguardo certo, di un pensiero nato povero. Ma se non si permette a questa sensazione (non è un pensiero, infatti, né una riflessione) di sovrastare altre considerazioni e persuaderci, allora ci accorgeremo che non è così, anzi: la filosofia nasce da una necessità di verità, dall’esigenza dell’uomo di possedere la verità su se stesso e sul mondo, e di averla traendola da se stesso, dalla propria ragione e dal proprio sentimento, dalla propria esperienza; e per propria volontà.
A un certo punto della sua storia l’uomo percepì, e forse capì, che senza la ricerca della verità, e senza la volontà della verità, il suo grande cammino rispetto all’animale rimaneva limitato a ciò che mani e tecnica avevano costruito: le cose.
Non ci sarebbe stata effettiva frattura qualitativa di specie finchè la risposta sulla verità, sul mondo e sul perché, non fosse data usando uno strumento di stretta pertinenza umana: il Pensiero.
Qui parve la nobilitate e la grandezza immediata della filosofia: per il pensiero le domande prime erano anche esattamente le domande ultime. In questo senso non fu un faticoso percorso in salita: la verità cercata fu intuita completamente subito: era il Principio di noi e del tutto. Altro che povertà d’approccio! Nacque grande e compiuta nel progetto. Inizio e fine, concreto e astratto, tutto era nell’esigenza della conoscenza. La fatica non fu questa, ma la dimostrazione che ne seguì.
.
Il pensiero si pose alla sua massima grandezza fin dal momento in cui apparve il problema; e il problema divenne la discriminante rispetto al resto della natura, e la sua soluzione divenne l’essenza del vivere dell’uomo e del suo morire.
L’uomo divenne colui che voleva conoscere:
– voleva, un atto cosciente che gli attribuiva dignità maggiore e maggiore responsabilità; sconosciuto come atto del pensiero ad ogni altro animale;
– conoscere, una dimensione nuova del suo essere nel mondo e del mondo. Non più solo instintualmente individuo, ma agente attivo di un processo che voleva sondato fino in fondo per dargli e darsi un orizzonte di senso ontologico o anche solo di motivazione storica. Dimensione capìta però, non ignaviamente e rassegnatamente vissuta, come per gli altri enti di cui la natura è formata, cui basta nutrimento, a conservazione e trasmissione di materia e forma in cui riconoscono ed esauriscono ciò di cui si compone la specie.
L’uomo divenne il cercatore di ulteriorità.
§§
A 2 2 e la tragedia della conoscenza.
La filosofia – ricerca della verità – rappresentò l’introduzione della dimensione tragica nella dimensione naturale.
Nulla, per l’uomo, fu più immediatemente naturale e quindi acriticamente accettabile; nulla fu più immediata conseguenza di una avvenuta precedenza, naturalmente. Tutto fu mediato da un pensiero che pretendeva di capire non solo il come tecnico/meccanico, ma anche il perché giustificazionale. E tale dimensione acquisiva come propria (“coscienza” è lo strumento) caricandola di significati ulteriori, la dimensione naturale.
L’assunzione in proprio degli accadimenti-fenomeni, per elaborarli in un ambito di criticità rispetto alla loro naturalità è la tragedia. La tragedia dell’uomo intelligente contro l’uomo naturale, dell’io contro il dio, della compiutezza (anche solo nell’opera) mai raggiunta. La tragedia dei bellissimi orizzonti che si ampliano senza fine ma non hanno mai fine, e attestano la loro irraggiungibilità all’uomo costretto nella terra dalla freccia intellettuale che lo trafigge e inchioda al limite.
Lo sai questo, uomo, ma non ti rassegni all’incompiutezza e inelevabilità; ed in ciò si riconosce la tua grandezza talvolta velleitaria e talvolta disperata. Ma talvolta eroica. Sempre in missione, in ricerca, fiducioso che la conoscenza ti introduca nelle stanze della verità. E ti costa questo credere.
La tragedia della consapevolezza che non si satura di alcuna conoscenza mondana; e della conoscenza che, maggiore che sia, maggiormente fa vedere il limite sempre umano, sempre troppo esclusivamente umano.
Tragedia, non commedia, perché, alla fine, si discute di vita e di morte. Di individuale vita e individuale morte. Non di “ciò che è” vita e morte, ma delle “cose che sono” (e noi fra loro) ed hanno vita e morte.
E in questo, la conoscenza ci pone il problema e se ne va, per raggiunti limiti.
Nascita e morte sono concetti incomprensibili se si parla di ciò che è, sono invece i soli concetti pienamente adeguati a capire le cose che sono. Il tempo, che non può essere applicato a ciò che è perché ciò che è è un eterno rinnovo al di fuori del tempo, che supera il tempo, è invece la sola misura possibile per le cose che sono.
Da qui quanto poi avvenne come conseguenza spontanea: il tentativo di contrastare la tragedia o di accettarla con giustificazione, o di modificare la natura per evitarla. Di dominarla, talvolta, o di introdurla in un ambito di conoscenza che, trascendendola, ne diluisse gli effetti o li annullasse addirittura in un pensiero che non li riconosceva.
Fu così che il Pensiero si rielaborò preponderante rispetto ai fatti, (cui pure deve i concetti ma non se ne curò), e pretese ch’essi esistessero in lui e per lui, dipendenti da lui; e ciò per riuscire a vincere la natura attraverso la teorizzazione ideale dei fenomeni. Divenne prepotente per disperazione.
Si arrivò a pensare: ciò è accaduto e accade perché il mio pensiero conferma l’avvenimento, il fenomeno. Nulla è accaduto nè accade se il mio pensiero afferma il contrario o non coglie il fenomeno o non lo assume o ratifica.
Tutto nel Pensiero, nulla al di fuori di esso (incontreremo spesso, nel corso di questo studio, tale affermazione, ma non per condividerla): questa è la posizione che si assunse e ancora si assume per controllare una realtà che taluni pretendono essere idea-dipendente.
Un assurdo o un delirio di onnipotenza. Ma la nascita del problema è qui: nella volontà di eliminare la tragedia con le proprie forze.
Ma, ancora, perché “tragedia”? Perché la verità, scandagliata, analizzata, recuperata e poi perduta di nuovo, definita e ridefinita, porta, in ultima analisi, per qualsiasi strada si percorra il cammino, a un finale distruttivo.
L’uomo, secondo le leggi naturali fisiche, è destinato a rientrare nella natura come ogni altro ente naturale, ed in essa perderà la sua individualità e identità, riassorbite dal moloch omnincludente: questa è la sua verità naturale.
La tragedia è dell’individualità, cosciente come appare in sé a sé, senza supporti altri; nessuna empatia può interiorizzare la solitudine del morente al punto da relazionarsi con essa in condivisione di destino. Chi è solo è sempre e soltanto solo; ed anche il più buon pietismo non è che un tentativo esterno, eticamente encomiabile perché rivolto al bene, di introdurre un ultimo imbroglio: un’ipocrisia o un’illusione (sua sorella di sangue), cui, per eliminare la consapevolezza della tragedia, si può anche aderire.
La speranza soltanto è categoria tanto forte da rappresentare un’opzione effettiva, perché alla forza di una realtà innegabile che porta alla tragedia oppone una forza di almeno pari valore, la forza del mistero. Al conosciuto-conoscibile essa oppone l’inconosciuto-inconoscibile. Non è una lotta tra vero e falso, ma una contrapposizione tra ciò di cui posso dichiarare l’esistenza e ciò di cui non posso dichiarare l’inesistenza.
§§
La tragedia nasce il giorno in cui un pensiero rimane folgorato da una intuizione che diventa consapevolezza: ho una volontà. Questa volontà può volere anche diversamente dalla naturalità delle cose. La mia volontà può decidere che la mia intelligenza provi a diradare la cortina di fumo che sta fra me e i fenomeni, per vedere la verità.
E cosa vedrò, che potrò chiamare verità’? Lo scopo, il fine? E sarà quella “la” verità? E poi potrò modificare il corso delle cose; e sarà anche quella verità? Ci possono venire alla mente tante verità, e tanti livelli di verità – la verità scientifica, la verità linguistica, la verità fenomenica…–; e ciò altro non farà che attestare la difficoltà ad inquadrare e accertare “la” verità che si cerca; che non è una qualità delle cose o degli uomini, non è una sostanza né è un attributo: è una coerenza, è una corrispondenza, è una relazione soddisfacente. Non è un fatto, ma un significato.
Occorre un salto di qualità. (Che è nelle capacità e possibilità umane: non appartiene alla sfera religiosa, che si avvale di altre vie. Lo spirito è umano, primariamente, e si avvale di umani strumenti).
Dobbiamo andare oltre alla naturalità del divenire dove il Pensiero scopra l’eternità di un ente personale capace di sottrarsi al destino di degrado, partecipando, unico tra gli enti naturali, alla dimensione che il Pensiero consente – e solo a lui – di penetrare: la dimensione dello Spirito. Un pensiero/capacità che pensa il proprio Io personale nell’immanenza e nell’ipotesi di trascendenza.
E nello Spirito sarà possibile trovare la verità, perché lo spirito è essenza e la verità appartiene all’essenza, ne è il significato nell’ordine del cosmo.
Ugualmente il percorso sarà tortuoso e contrastato, in cui concetti opposti si combattono, idee negano e affermano altre idee. In cui si affrontano gerarchie di mondi e sostanze diverse e incompatibilità di apparenze e noumeni. Ma la tragedia, che pur rimarrà nell’incertezza della lotta che preferiamo chiamare ricerca, incomincia ad intravvedere una possibilità: essere superata nella verità dello spirito. Forse solo una condizione di possibilità, ma quanto importante!
§§
Essere e divenire, uno e molteplice, libertà e sottomissione, idea e concetto, cosa e creazione, princìpi primi e princìpi altri, archè, epistème, tecnica, fisica, metafisica, hybris…quanti nomi per tanti argomenti affrontando i quali, con i moltissimi altri ovviamente, ci siamo illusi di dare volto alla verità ed eliminare la tragedia.
Erano ostacolo e ci siamo, ancora, illusi che conoscendoli meglio, sempre meglio, sarebbero diventati degli alleati nella conoscenza di quella verità che si era intuìta e che si voleva razionalmente fondare: la verità di ragione.
Ci siamo accorti poi che la verità di ragione non è “la verità”, ma solo una logica. E che la “verità” è invece una giustificazione che solo nello spirito trova il suo significato. E lo spirito non è il pensiero, ma il pensiero con un quid di umanità in più; non è la coscienza, ma la coscienza con un quid di capacità etica in più; non è l’energia vitale, ma l’energia vitale con un quid di volontà umana in più. Quei quid aggiunti all’ordine naturale definiscono la nostra appartenenza all’ordine dell’essere, che si manifesta nell’atto dell’esserci, scorie comprese.
Alla verità di natura, che è il suo divenire significante infinità, si accompagna la verità dell’uomo, che è appartenenza con volontà e responsabilità e attività umana (i “quid” in più).
Lascia un commento