dal completamento reciproco dei contributi che intelletti diversi possono dare in base al loro particolare ingegno, consegue un avanzamento ulteriore verso la verità soprastorica[1]
CENTRALITA’ DELLA PERSONA IN E. STEIN E L.STEFANINI
di Renato Pagotto
La gioia di trattare assieme due autori, a me particolarmente cari, si attenua immediatamente per la consapevolezza di un compito impari alle mie forze. Ma altrettanto forte è in me la consapevolezza che la loro opera, pur ai margini del clamore pubblicitario, è decisiva per capire i problemi del loro tempo, ed è ancora attuale per reimpostare quei problemi in una coerente interpretazione e sapiente valutazione. Sono convinto che la loro opera costituisca un luogo di confronto obbligato per la filosofia di credenti e non credenti in un serio approfondimento della storia del pensiero. Tuttavia, mantenere la distinzione che li caratterizza e mettere in risalto la sorprendente comunanza di pensiero, sarà la continua preoccupazione che mi accompagnerà nel presente studio.
DUE VITE PARALLELE E UN PENSIERO CONVERGENTE
Stein e Stefanini esplorano il senso della persona per strade diverse, non parallele ma convergenti. La Stein parte dal senso dell’essere per arrivare al senso della persona. Stefanini parte dal senso della persona e arriva al senso dell’essere (vedremo tuttavia che non si tratta di contrapposte concezioni dell’essere). Se assumiamo come referente il cammino di Heidegger (da entrambi conosciuto a fondo e da parte di entrambi oggetto di severa critica, purtroppo poco nota a tanti interpreti di quell’autore), essenzialmente caratterizzato dall’aver posto l’uomo (l’Esserci) come parametro fondamentale del senso dell’essere, rileviamo che i cammini convergenti della Stein e di Stefanini si ritrovano in un’unica conclusione: non si dà senso dell’uomo se non in rapporto ad un modo esplicito (quello che Heidegger evita) di coinvolgere la ragione umana, per quanto finita, nel discorso su e di Dio.
Quando dico discorso su Dio mi riferisco all’uso della ragione sul piano strettamente filosofico, mentre con discorso di Dio alludo al problema del rapporto tra fede e ragione. Rapporto questo che in Heidegger non trova spazio, a differenza del discorso su Dio, peraltro sempre implicito se non escluso e spesso ambiguo nel suo orizzonte filosofico.
Ma è il senso della persona che, in un modo o nell’altro rinviando al senso dell’essere, mette vicini Stein e Stefanini ed entrambi lontani da Heidegger[2].
Per spiegare il comune interesse primario dei tre, Stein Stefanini ed Heidegger, nell’incentrare la loro filosofia nel soggetto umano, occorre guardare al contesto della problematica filosofica del loro tempo[3].
Nella prima metà del Novecento H. Bergson invocava per il suo tempo un «supplemento d’anima». Vedeva i residui di ottimismo ottocentesco, sulle capacità della ragione, dileguarsi sempre più di fronte al tema della coscienza. Sia sul versante positivistico che sul versante idealistico[4]. La generale perdita di senso della vita, nel panorama di una società spersonalizzante, affidantesi prevalentemente a tecnicismi scientifici di corto respiro e la tragica esperienza della prima guerra mondiale, gli facevano percepire un vuoto d’anima[5].
Quel supplemento l’hanno offerto, in sorprendente concordia di pensiero, i due testimoni della verità che stasera rievochiamo, anche se ancora troppo poco conosciuti[6].
Come Bergson, anche Husserl aveva lamentato l’assenza del mondo della vita e della coscienza nella cultura scientifica e filosofica del suo tempo ed inventò per porvi rimedio il metodo fenomenologico[7]. Gli fu stretta collaboratrice la più acuta dei suoi assistenti, E. Stein. Lei, tuttavia, pur attenendosi strettamente a quel metodo, approdava per conto proprio ad una prospettiva inusuale negli ambienti fenomenologici. Se fosse stata accolta tale impostazione, un senso nuovo ed autentico della vita, e persino più persuasivo dell’impostazione filosofica bergsoniana, avrebbe fornito il sospirato supplemento d’anima. Per una fenomenologa come lei, non prevenuta e indagatrice di ogni traccia di verità, anche il vissuto della fede, nella coscienza di un credente, costituiva oggetto meritevole di studio. Qui la sua affinità con Stefanini è totale, a differenza del metodo fenomenologico su cui egli è critico[8], soprattutto per le conclusioni insostenibili che ne aveva tratto Heidegger[9]. La scelta di limitarsi alla descrizione delle essenze, colte nell’ambito della struttura intenzionante della coscienza, precludeva l’accesso all’ambito della realtà extracoscienziale. Costituiva, per Stefanini, uno jato, com’egli lo chiama, tale da snaturare artificiosamente la fondamentale funzione simbolica della rappresentazione mentale e della mediazione propria del concetto.
Eppure la Stein mirava a superare uno jato ancora più profondo; la spaccatura che da Galilei in poi, aveva disgiunto, nella realtà, le qualità primarie oggettive dalle qualità secondarie soggettive. Quest’ultime venivano estromesse dall’ambito delle verità attendibili scientificamente, passibili cioè di verifica sperimentale. La tendenza storica portò di fatto a conferire valore di verità soltanto alla verità quantificabile e misurabile sperimentalmente. Il mondo della vita, intessuta di verità soggettive, ne risultava tagliato fuori. Anche l’avvento della psicologia riproduceva quella frattura, riducendo l’anima e la coscienza a problema di sperimentazione, tradotta in termini associazionistici[10].
Per Stefanini la sospensione del significato ontologico dei dati intenzionati e vissuti dalla coscienza, l’epoché, lasciava il trascendentalismo husserliano senza risposta soprattutto al problema della comprensione intersoggettiva tra soggetti umani. Sappiamo che Husserl stesso riconosceva l’inadeguatezza del suo metodo di fronte a tale problema. La Stein ne era ben consapevole, al punto da dedicarsi con tutto il suo acume e il suo ardire, alla soluzione della difficoltà, nella sua tesi di laurea. Un simile atteggiamento di onestà e intrepidezza intellettuale sarebbe particolarmente piaciuto a Stefanini[11]. Anch’egli amava le sfide più alte del pensiero e soprattutto l’onestà di affrontarle alla radice. In quella tesi la Stein produsse quello che può essere ritenuto il suo più originale contributo alla storia del pensiero: l’indagine sull’Empatia. Persino Husserl avvertì come l’allieva stesse superandolo nel punto più problematico del suo metodo, l’uso dell’analogia, ch’egli peraltro aveva tentato, quasi contraddicendo il suo metodo (e Stefanini non se lo lascia sfuggire, scrivendo: Husserl “si serve del concetto di analogia, il meno atto alla riuscita dell’impresa”). Peraltro, la distanza tra Stein e Stefanini sul piano della metodologia gnoseologica si ridimensiona se teniamo presente l’osservazione di Stefanini sul Gioberti da lui definito, in senso positivo, “fenomenologo in anticipo di un secolo”, in quanto “ha visto molto prima dell’attuale fenomenologia, l’jato”[12] dell’intrinseca aporia conoscitiva tra soggetto e oggetto[13].
Innanzitutto, sul problema fondamentale per la filosofia, in tutti i tempi: il problema dell’essere. Stefanini non può disgiungere il significato di essere dalla partecipazione all’essere e tale partecipazione è inizialmente di carattere psicologico: “È in se medesimo che, anzitutto, l’io partecipa all’essere […][14]. È in se stesso che l’io sperimenta la inerenza del pensiero all’essere, in quella concretezza piena del pensante che non è né pensiero astratto, che pensi se stesso, né essere inerte e cieco, ma atto dell’essere che è reale ed esistente per la sua presenza a se stesso. L’esperienza dell’io, che è il dato più certo e immediato di cui si possa disporre, sconfigge ogni concetto dell’essere quale dirimpettaio del pensiero (oggetto che il pensiero debba rispecchiare) o riempitivo del pensiero […]. Il primo contatto che l’io ha con se stesso gli rivela che l’essere esiste solo come coscienza o per la coscienza […]. L’essere viene a me, anzitutto, non nella forma anonima dell’essere univoco, ma come mio essere, nettamente qualificato con la nota di un’appartenenza unica, esclusiva, gelosa, incommutabile”. La singolarità personale “sta alla base e al vertice dell’essere”[15] per cui la “Filosofia, quale esercizio pieno della ragione, è impegno totale verso l’essere, e la sua formula è quella che indica ad un tempo una responsabilità morale ed un ideale di libertà: essere se stessi ed esserlo pienamente”[16].
Gli fa riscontro la Stein con le seguenti espressioni: “Rimane come campo di ricerca la coscienza, intesa come vita dell’Io […] ciò che si dona come l’essere dell’Io cosciente di se stesso” […] nel «vivere» di sant’Agostino, nell’ «io penso» di Cartesio, nella coscienza (Bewusstsein) nel vissuto (Erleben) in ogni caso di Husserl, si cela sicuramente un io sono. Questo [non come in Cartesio] vi si trova in modo immediato: pensando, sentendo, volendo o in qualsiasi moto dello spirito sono e sono consapevole di questo essere. Questa certezza del proprio essere è in certo senso la certezza più originaria”; “lo è nel senso di ciò che mi è più vicino, che è a me inseparabile e perciò come un punto di partenza al di là del quale non si può andare. Questa certezza d’essere è certezza «non riflessa», si pone prima di ogni pensiero riflesso”[17]. Da queste espressioni sul problema dell’essere intuiamo perché Stein e Stefanini giungeranno alla concezione della persona come fonte prima di ogni ricerca sulla verità dell’essere. Dalla persona è impensabile scostarsi se non si vuole una verità soltanto categoriale, astratta e avulsa dal mondo della vita[18].
FILOSOFIA PER LA VITA
Ma perché questi due autori ci interessano?[19] Le loro non sono filosofie cosiddette da salotto (da divertissement intellettuale, “ozioso cerebralismo”[20]) né filosofie di comodo (ripetizioni di categorie mentali confezionate altrove, utili per carriera accademica), bensì filosofie di impegno, di militanza e di innovazione radicale, sulla base delle proprie convinzioni interiori e sotto la spinta insopprimibile e disinteressata della sete di verità[21]. Le prime, le filosofie da salotto, lasciano il mondo com’è, e se ne vantano persino; le seconde, le filosofie dell’impegno, vogliono cambiarlo. Tra queste, ecco che alcune vogliono cambiare il mondo a partire dagli altri (valga per tutte il marxismo), mentre altre, meno condivise, vogliono cambiare il mondo a partire da se stessi. A quest’ultime, pur minoritarie nel panorama culturale del nostro tempo, appartengono le filosofie dei nostri due autori.
Stein e Stefanini affrontano una triplice sfida epocale: ridimensionare la scienza di tipo positivistico, recuperare la psicologia alla responsabilità della coscienza, in particolare la psicoanalisi, ingabbiata nella dogmatizzazione dell’inconscio, e impostare la filosofia sulla logica del vissuto nell’esperienza personale, compromessa, in modo antitetico, da esistenzialismo ed idealismo[22].
Anima di tale sfida è la ricerca della verità, nelle forme della skepsi stefaniniana, sulla scia di Platone, e della via fenomenologica steiniana, sul percorso di Husserl. Per strade diverse giungono ad una forma di razionalità con al primo posto l’autorità del proprio giudizio personale al posto delle scuole basate su giudizi precostituiti. Tale giudizio personale ha di diverso (rispetto ad una posizione razionalistico-innatistica o trascendentalistico-kantiana, o immanentistico-idealistica o empiristico-positivista) l’aver messo l’esperienza personale (quale esperienza di coscienza della propria identità, unica e specifica) come punto di partenza di ogni altra forma di ricerca. L’io è il terreno d’indagine su cui costruire il senso stesso della verità. L’io nella sua dimensione più elevata, la ragione; ma, come vedremo, una ragione non intellettualistica né strumentale. Per intuire questa profonda affinità tra Stein e Stefanini è sufficiente leggersi Storia di una famiglia ebrea della Stein[23] e una lettera di Stefanini sedicenne in cui dichiara di volersi attenere all’autorità della ragione, prima di ogni altra autorità, religiosa compresa[24].
Non meraviglia, allora, se la loro triplice sfida s’incentra nella proposta di mettere la persona, e non una razionalità astratta, al vertice di qualsiasi criterio d’indagine filosofica[25]. La persona, non soltanto studiata, ma convalidata dalla testimonianza della propria stessa vita. Ne è prova il fatto che entrambi considerano la pedagogia così intrinsecamente legata alla filosofia da ritenere sede naturale della pratica pedagogica proprio la ricerca filosofica[26].
Messa così al primo posto non solo nella teoria ma nella pratica, la persona richiama il conosci te stesso socratico, divenuto discrimine di ogni sapere. Se il loro tentativo ebbe successo nella diretta azione educativa, specialmente in ambito scolastico, come testimoniato da quanti ebbero la fortuna di averli maestri, è perché per loro il fare filosofia è connesso al viverla nella pratica: nel rigore scientifico e nella testimonianza di vita. La coerenza tra vita e insegnamento impartito è evento abbastanza raro negli ambienti accademici. Per questo essi vanno ricordati non soltanto come instancabili ricercatori della verità (instancabili anche nel senso letterale del termine, nella dedizione al lavoro giorno e notte) bensì come operatori di verità, risposte viventi alle domande del loro (e nostro) tempo[27].
Il tema della realizzazione dell’io, ricorrente nella Stein e in Stefanini, è dunque per loro non una questione di coerenza personale facoltativa, che in un docente di filosofia può esserci o non esserci: è la medesima ragione della ricerca e della vita di ricerca. La cui realizzazione piena è prendere coscienza di se stessi.
Ho detto che giungono alla centralità della persona nel sistema del loro pensiero, ma per strade diverse, sul piano gnoseologico, non ontologico, come si è visto. Essa è dovuta alla diffidenza di Stefanini per il metodo fenomenologico che, pur con accentuate sottolineature di positività di quel metodo, considerò, sino ai suoi ultimi anni, un processo conoscitivo, messo in piedi dal trascendentalismo husserliano, che minacciava dall’interno, con deleterie conseguenze anche in campo pedagogico, la tradizionale fiducia nel rapporto, sul piano conoscitivo, tra intelletto e realtà. Scrive: “Il primo contatto che l’io ha con se stesso gli attesta che la coscienza non è mai nella condizione, finta dalle scuole tedesche, del Bewubsein über haupt, ma sempre nella condizione di una singola coscienza e della coscienza di un singolo” [28] Il caso di Hartmann che, a Berlino, dopo una prima fase di adesione, si era dissociato dalla fenomenologia per costruire unasua filosofia dei valori, gli appariva eloquente. Stefanini ritiene che nella fenomenologia si siano posti in modo eccellente i problemi del rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, ma si sia preteso di andare oltre con la soluzione della intenzionalità che è una specie di “connettivo tanto elastico, da potersi allungare indefinitamente […] sì da congiungere al soggetto tutto ciò che infinitamente lo trascende”[29].
Ma ecco che vediamo Stein e Stefanini, come corsi d’acqua che da opposte rive si uniscono a valle in un medesimo corso. Le critiche ad Heidegger sul senso dell’esistenza umana, a Scheler sul rapporto del soggetto nei confronti del valore, e, in parte, a Dilthey sul significato di comprensione storica, sono soltanto un esempio di una inattesa e profonda convergenza di vedute tra Stein e Stefanini. Molte altre ne incontreremo.
ANIMA MEDIATRICE
Dalla loro impostazione filosofica scaturisce quella che siamo soliti denominare la via agostiniana dell’interiorità. Ne consegue tutta una serie di scoperte tipiche di questa via. Innanzitutto la scoperta dell’anima.
Sull’anima la Stein conduce analisi inesauribili (da vera tedesca, direbbe Stefanini[30]). L’anima per la Stein “E’ un centro vivente, nel quale tutto confluisce e da cui tutto parte: il gioco dell’ REF essere sollecitato «essere sollecitato» e del rispondere è la vita dell’Io“. Il che vale anche per le piante. Ma qui si tratta di un Io che “non si eleva come persona al di là e al di sopra di esso [centro]”. “Nell’anima dell’uomo ha avuto luogo questa elevazione. In lui la vita interiore è essere cosciente”. Aggiunge: “Il termine anima ha però un contenuto ancora più caratteristico, per il quale l’interiore non è solo il punto di partenza e il centro nel dare forma esterna, bensì il luogo in cui l’ente è sbocciato verso l’interno […] ogni anima è un «mondo interiore»REF mondo interiore in sé, concluso anche se non è staccato completamente dal corpo e dal mondo esterno”[31]: “è il legame[32] tra la spiritualità e l’essere legato ai sensi proprio del corpo. Però la divisione in tre parti, in corpo, anima e spirito non deve essere intesa nel senso che l’anima dell’uomo è un terzo campo tra gli altri due, sussistente senza di essi e indipendentemente da essi: in essa si incontrano e si mescolano la spiritualità e la sensibilità”[33].
In questa duplice propettiva di anima e spirito la persona ci appare nel suo essere unità in tensione: “in quanto anima nel senso più proprio, però, abita in sé, in essa l’Io persona è di casa. Qui […] ha luogo la disputa interna dalla quale si prende “posizione, ricavandone ciò che diventerà più propriamente personale, la componente essenziale del proprio Io”[34]. Così l’anima media la vita del corpo e le esigenze dello spirito. Precisa la Stein: “Se noi pensiamo al doppio significato della vita umana, al fatto che essa da un lato è vita che forma la materia, come la vita animale e vegetale e dall’altro è vita spirituale-personale, interiore, in sé conclusa, ma che si trascende ecc.”[35], allora ci appare che “La vita piena di senso però è vita straripante, irradiante: ha la forma dell’essere, che noi chiamiamo spirituale”[36].
Questo linguaggio è tipico anche di Stefanini, che sulla primalità dello spirituale ha incentrato gran parte delle sue analisi, prossime all’idealismo ma esenti da commistioni tra trascendenza, trascendentalismo, immanenza. Altrettanto per la Stein, la legge dello spirito è legge di superamento: “è un emergere da se stessi”, verso: a) un mondo oggettivo e b) altre soggettività[37]; “non possiamo ammettere che la realtà si esaurisca con la «natura» fisica e psichica”. E ancora: “Il regno dello spirito si contrappone […] alla coscienza come un ambito di realtà trascendenti, come si contrappongono ad essa l’essere fisico e quello psichico”[38].
Nello spirito si registra dunque una emergenza, una contrapposizione, anzi un capovolgimento, da cui deriva la tensione costitutiva della persona: “La persona umana porta e comprende il «suo» corpo e la «sua» anima, ma nello stesso tempo è portata e compresa in essi. La sua vita spirituale si innalza da una profondità buia, come una fiamma di candela che splende, ma che è alimentata da una materia che non splende” […] L’intera vita cosciente non si identifica col «mio essere», assomiglia alla superficie illuminata di un abisso oscuro, che si manifesta attraverso questa superficie. Se vogliamo capire l’essere persona dell’uomo dobbiamo cercare di penetrare in questa profondità oscura”[39].
“Questa dipendenza della struttura personale da leggi razionali […] produce una chiara separazione dall’anima che non sottosta alla ragione ma alle leggi naturali […]. Posso sentire un valore elevato meno intensamente di uno inferiore ed essere indotto da ciò a realizzare quello inferiore”[40]. E’ così che nella persona ha luogo la “disputa interna”, come diceva Agostino: “Io stesso ero diventato per me un grave problema”[41]. In questa unità in tensione, in questo “essere stranamente discorde”[42], emerge nell’anima la differenza tra pura individualità e l’essere persona[43], una mescolanza che unisce spirito e corpo[44]. Siamo nella profondità dell’anima nel suo essere anche spirito.
I dettagli analitici e descrittivi sull’anima erano dunque tra gli interessi principali della Stein nel suo programma fenomenologico[45]. Sulla psiche lei nota la: “distinzione tra la coscienza e lo psichico”[46]. Infatti, “Io, anima, spirito, persona – essi stanno evidentemente in stretto rapporto, ma ognuno di questi termini ha un significato speciale”[47].
Non meraviglia, a questo punto, che la ricerca della verità sia ancor più problematica che sul piano di una logica formale applicata. I risultati non sono altrettanto attendibili proprio perché sfuggono alla logica della dimostrazione: entra in gioco la complessità. L’univocità logica è un lusso insufficiente a fornire un concetto di razionalità coerente con la complessità della realtà della persona[48].
PAROLA E PERSONA
Quella dell’anima è una funzione di mediazione. Essa media le certezze riguardanti la vita del corpo (note secondo la logica dell’esattezza scientifica) e le certezze dello spirito (riconoscibili nell’ambito della coscienza come dati inspiegabili con la sola causalità naturale), secondo quella che Stefanini chiama la primalità dello spirituale. Mediare significa essere nel mezzo. Nel mezzo tra scienze della natura e scienze dello spirito.
Luogo privilegiato della funzione mediatrice, in cui spirito e corpo si riconoscono attraverso l’anima, è per Stefanini la Parola, logos in senso classico. Lì si saldano inseparabilmente ragione e persona: “l’essere spirituale […] è nucleo ed energia insieme: essere la cui energia è la stessa parola con cui la persona ritorna su se stessa per possedersi”[49].
Analogamente la Stein: “la vita personale è un uscire da sé e nello stesso tempo un essere e rimanere in sé […]; l’essere persona deve essere anche spirituale” (quell’ “anche” richiama la distinta realtà dell’anima)[50].
Stefanini, quasi più della insistentemente della Stein, individua quell’uscire da sè e rimanere in sé della persona, nella modalità dell’espressione propriamente umana che è la parola[51]. Al punto da identificare persona e parola (il logos, da leghein, con significato di raccogliere, tenere insieme, crea legami, assolve la funzione dell’animale logico. Approfondiremo verso la fine questo significato)[52].
La dimensione spirituale e logica della persona è sottolineata dalla Stein come rapporto intrinseco tra parola e persona: “Il pensiero e la parola sono connessi nel modo più intimo, sono fondamentalmente un solo processo […]. Quando non si riesce a trovare la retta espressione linguistica, anche il processo del pensiero non è ancora perfetto. Ciò che non si riesce ad esprimere è ancora oscuro ed ottuso nell’anima; e chi non sa esprimersi è quasi prigioniero nella sua anima: non può muoversi liberamente né raggiungere gli altri […]. Sapersi esprimere in modo adatto, è qualcosa di essenziale per la piena umanità”[53]. Nella seguente espressione la Stein è intercambiabile con Stefanini: “L’immediata «incarnazione» dello spirito è la parola. Lo spirito divino e lo spirito umano si esprime e si configura nella parola”[54]; “sia Dio che lo spirito umano si esprimono nella parola”[55]. Stefanini ha le seguenti analoghe affermazioni: “L’atto con cui l’essere si rende presente a se stesso nell’ente personale può dirsi, indifferentemente, pensiero o parola: verbum”[56]; “Io sono l’essere che è in quanto si dice […]. L’intima esperienza mi rivela che l’essere, nella sua natura personale, è essenzialmente il suo manifestarsi e il suo dichiararsi a se stesso: Ens declarativum et manifestativum sui”[57].
La libertà, l’iniziativa, l’agire, la motivazione, la tensione o lotta interiore tra forze contrapposte dell’anima, in particolare nel rapporto e nel legame sociale, tutto si riflette nella mediazione della parola che assume la connotazione della creatività. Non si è persona se non nella misura in cui si è parola. La nostra parola, si badi. Non quella del “contagio”, come sentiremo specificare poi dalla Stein. Non quella ripetuta passivamente perché parola di altri. La nostra parola, che è unica, perché unico il nostro «Io sono», quale riflesso dell’«Io sono» eterno[58].
E’ quasi una gara tra Stein e Stefanini (ma nulla sapevano uno dell’altro!) nel risalire al senso primario della parola. Nella parola, che non è chiacchiera superficiale, avviene quella mediazione che chiamiamo comunicazione. Non parola dell’esteriorità superficiale ma espressione della raggiunta profondità nell’interiorità: “Chi ha compreso il vero senso del linguaggio, sa bene che parlare comporta una responsabilità, che dobbiamo avere rispetto per le parole. Lo si voglia o no la parola esprime sempre la propria anima (sto citando la Stein, non Stefanini!). Si stacca dal suo intimo come frutto maturo, e annuncia il suo lavoro interiore; oppure tradisce, quasi esplosione incontrollata, i suoi fermenti e le sue tempeste; nell’espressione avventata infine denuncia superficiali moti dell’animo”[59].
La Stein fa presente il “pericolo di usare espressioni linguistiche invece di parlare, cioè di dar forma verbale al pensiero profondo”[60]. Pericolo che Stefanini chiama verbalismo, in quanto il “verbalismo non s’identifica col simbolismo, anzi ne significa la morte”[61]. Simbolismo (da syn-ballein) è tenere insieme. Tutta l’opera dell’imaginismo di Stefanini verte sulla portata simbolica della conoscenza. Pensare è innanzitutto linguaggio interiore (tutto questo ricorda Platone): “il pensiero è null’altro che questo continuo dirsi [della persona] a se stessa […] sulla base della nostra esperienza più certa, che la filosofia dovrebbe soltanto ratificare per salvarsi da tante inutili ricerche”[62].
Nella mediazione della parola, che ci oggettiva a noi stessi e ci apre alla comunicazione con gli altri, nel groviglio esistenziale in cui viviamo, occorre districarsi per non restare, dice Stein, soltanto un «individuo psicofisico». Il che avviene nel rapporto dell’individuo con altri individui allorché si è massa e non persona. Il fenomeno della massa di per sè non è negativo (ci sono dei valori anche in quel caso, avverte la Stein) ma la persona non può identificarsi con la massa. Può servirsene se, con parole stefaniniane, al “centro d’iniziativa […] è la persona umana”[63]. Nel legame intrinseco della parola, nel suo essere con gli altri, nell’azione e nella comunicazione con gli altri, in società, “la parola ha portata cosmica e sociale in quanto implica una portata soggettiva e psicologica […]. Noi comunichiamo con gli altri in quanto anzitutto comunichiamo con noi stessi: e, se la parola assume talvolta un valore logico, la sua struttura, che sembra renderla impersonale e astratta, non è che l’estrinsecazione dell’atto con cui l’intimità spirituale ritrova la propria interna coesione in una struttura razionale. La ragione, infatti […] non è che il connettivo che salda la persona a se stessa, sopra la contingenza degli atti, dei fatti e la precarietà delle emozioni […]. Exprimere est actus intrinsecus. Expressio est quaedam assimilatio (S. Bonaventura, De scientia Christi, q.2)”[64]. Dunque, la ragione, che si esprime e media nella parola, è connettivo logico intrinseco alla persona; cioè logos (da leghein: tenere insieme…): pensiero e parola si legano indissolubilmente tra loro. Non si pensa al di fuori del linguaggio. Linguaggio che, forma più alta dell’agire propriamente umano, è lo stesso pensare. Stefanini e Stein lo ribadiscono con insistenza. Non è un’invenzione di Heidegger. Intensa è l’espressione di Stefanini: “Non esiste persona […] se non per la possibilità dell’essere di chiarirsi e pronunciarsi a se stesso. Il sensus sui [l’identità personale] si ricavi analiticamente dal verbum sui e valga ad indicare il calore dell’atto che stringe l’essere personale a se stesso e l’intimità del contatto che la parola stabilisce col parlante, quando la parola è l’aprirsi dell’essere a se stesso: amor in verbo”[65]. Parola quale determinazione della libertà personale. Detto con la Stein: “Per persona abbiamo inteso l’Io cosciente e libero […] «padrone delle sue azioni», perché determina da sé la propria vita – mediante atti liberi. Gli atti liberi sono la prima sfera di dominio della persona”[66].
Allora quel tipico condizionamento di massa, che è il fenomeno del contagio, è tale da compromettere lo sviluppo della persona, poiché l’energia propria dell’individuo non ha più caratteri di produttività e di creatività, ma di passività nella forma dell’aggregazione esteriore. Certamente, nota la Stein, l’individuo può servirsi del contagio che gli deriva dalla massa, purché non ne venga asservito. Precisa: “Chi non sente i valori egli stesso, ma acquista tutti sentimenti solo attraverso il contagio degli altri, non può «vivere» se stesso, non può diventare una personalità ma al massimo un fantasma di questa. Solo in quest’ultimo caso possiamo dire che non è presente nessuna persona spirituale. In tutti gli altri casi non possiamo porre il non-sviluppo della persona sullo stesso piano della non-esistenza”[67]. Si tratta, dice, di “una fonte di possibile illusione, che già conosciamo: si possono assumere da altri non solo i vissuti «personali», ad esempio, anche il pensiero ed è possibile che sulla base di tale processo di pensiero «assunto» ci si attribuisca una capacità intellettiva che in realtà non si possiede”[68]. E guardando alla realtà sociale sotto gli occhi di tutti, nota: “Nella gran massa vi è oggi una lacerazione intima, una mancanza profonda di convinzioni sicure e di principi saldi; un abbandonarsi senza ritegno alla sensualità, con la conseguente insoddisfazione; un illudersi continuo, sempre rinnovato con piaceri sempre più raffinati; coloro che cercano di dare un contenuto serio alla loro vita, s’immergono spesso esageratamente nel lavoro professionale, che dovrebbe ripararli dal turbine della vita odierna, pur senza riuscirvi. Rimedi contro questa malattia del nostro tempo, possono esserlo solo persone veramente complete […] salde ai principi eterni, e non si lascino fuorviare nel pensiero e nelle opere dalle opinioni, dalle teorie e dai vizi di moda”[69]. Purtroppo “C’è sempre un gran numero di gente non abituata a pensare, che si accontenta di modi di dire logori”[70].
Il problema è ben presente anche a Stefanini, in quello che egli definisce “sociomorfismo”. Scrive: “la società aiuta la persona a ritrovarsi e ad esprimersi in quanto sia essa stessa personalizzata e personalizzante”[71]; altrimenti “Quando nel conoscere non è implicito un conoscersi, in fatto di cultura si va verso l’ammobiliamento mentale, in fatto di logica si va verso la cibernetica”, ossia, siamo in presenza di una “specie infraumana della società”[72].
Insomma, nella massa funziona la legge della causalità soltanto psichica, la Psychische Kausalität, in termini steiniani: manca la causalità della libertà, la Motivationskausalität. Se non ci si può estraniare dalla massa, non si può dipendere dalla massa. Stefanini distinguerebbe tra l’essere causati e l’essere condizionati. La distinzione tra causa e condizione è infatti fondamentale nella vita della persona quale essere cosciente e libero[73]. Ben sapendo che “Cercare la libertà nella ragione […] è incontrare la nostra natura profonda, identificarsi con noi stessi” e “questo risultato è il frutto di una scelta sanguinosa, che s’impone e si rinnova di momento in momento nella lotta liberatrice dell’uomo contro le forze dispersive dell’indolenza, del vizio, in una parola, dell’irrazionalità”[74].
LA PERSONA VIVE NELLA SOCIETA’
Intanto osserviamo come l’essere persona, in quanto unità in tensione tra corpo e spirito, tra sentimento e pensiero, esprimentesi essenzialmente nella parola, comporta il passaggio alla dimensione della società, luogo connaturato all’essere parola dell’essere persona.
Non mi addentro nel tema della società, affidato ad altra relazione, con tutte le interessanti distinzioni steiniane tra stato, società, comunità (solo in questa gli individui restano soggetti, nella società sono oggetti: il che non va inteso negativamente), gruppo, famiglia, ecc.
La preoccupazione riguardo al contagio, ci obbliga a tornare sul momento comunicativo della parola, quale realtà specifica della persona, alla base del rapporto sociale. Rapporto nel quale la Stein riserva un’attenzione speciale alla donna[75]. Essa “deve esprimere il proprio essere personale, deve liberarsi a poco a poco da un semplice mimetismo o imitazione, venendo a contatto […] con caratteri diversi o eventualmente contrastanti e trovandosi di fronte a compiti nuovi”[76]. Oggi “dobbiamo realmente prendere in considerazione effettiva la natura dell’uomo e della donna, per aprire la via a una preparazione, strutturazione e divisione professionale veramente adeguate, giungendo così, a poco a poco, a un innesto veramente naturale dei due sessi nel tutto sociale”[77]. Il che si traduce nella diversità di compiti professionali: infatti “La professione è proprio il punto in cui il singolo s’incorpora alla comunità, perché è la funzione che egli deve svolgere nell’organismo sociale”[78].
Poiché la persona è responsabile verso gli altri nella misura in cui sa amare se stessa, è evidente come il senso della imitazione e della partecipazione deve disporre del beneficio di una razionalità nuova[79], caratterizzata dall’essere della persona vissuto in pienezza, implicante la libera accettazione anche di una prospettiva di fede, tale da portare l’uomo e la donna a vedersi come creature[80] e tale da rendere il rapporto tra ragione e fede problema condizionante il senso stesso della storia. La distinzione di Stefanini tra causa e condizione si ripropone continuamente nel considerare il fare autentico che è sempre condizionato dal farsi della persona, specialmente nel suo farsi storia. Gli piaceva il detto di P. Valery, del “faire et en faisant se faire”[81]; altrimenti “il fare senza il farsi” è alienazione[82]. Infatti “L’uomo, solo agendo, sperimenta quello che «può» fare in quanto persona libera”[83]. Qui possiamo ravvisare un’eco delle tesi di Vico, cui peraltro Stefanini spesso si richiama.
Non più, dunque, scuole filosofiche avulse dalla vita ma la vita nel suo centro più significativo: la libertà della persona. Non problematizzazione teoretica, quasi gioco logico a sé stante, ma problema della realizzazione pratica del sapere teoretico. Libertà della persona, infatti, significa capacità decisionale in proprio. Pertanto nei sistemi economico-politici, in cui al centro ci sia la libertà di scegliere non solo i prodotti ma anche i modi di produrli, per non essere vittime dei sistemi produttivi bensì responsabili dello stesso progresso, che è sempre innanzitutto progresso della persona. E’ così che anche la Stein tende a superare il cosiddetto isolamento “artificiale” della teoresi[84].
LA PERSONA SI FA STORIA
Se causa e condizione si presentano intrecciati nel rapporto persona-società, più specificamente ciò si verifica nel farsi storia della persona: la parola realizzata si fa storia e la storia parola. Non è facile rendere questo binomio, tutto stefaniniano[85]. Scrive Stefanini: “la storia, deve diventare nostra parola affinché sia qualcosa per ciascuno di noi […]. Paradossalmente, la storia delle cose passate verte sul futuro per codesto capovolgimento […] nell’atto spirituale di ogni esistente per il quale ogni elemento retrospettivo deve rientrare nella prospettiva innovatrice che egli proietta innanzi a sè per riconoscersi”[86].
Nella parola divenuta storia si riassumono tutti i significati di verità, di vita, di creatività, di realizzazione di se stessi, in coerente adesione al proprio destino personale.
La Stein si occupa della storia in riferimento a Dilthey, allo scopo di precisare il significato di conoscenza storica, intesa come “comprensione storica”[87]. L’interesse di Stefanini è volto prevalentemente alla filosofia della storia, ma anch’egli prende in diretta considerazione l’impostazione di Dilthey. Con dichiarato apprezzamento, ne coglie tuttavia l’elemento immanentistico che gli richiama l’assolutizzazione della storia di tipo idealistico. Un’assolutizzazione che egli tentò di correggere con un’operazione speculativa che, per la sua arditezza, suscitò scandalo negli ambienti laico-idealistici e cattolico-confessionali: l’interpretazione della storia da idealista cristiano. Interpretazione in cui l’apporto storico del cristianesimo è visto come superamento del cosiddetto naturalismo, sia classico che moderno. Non si tratta quindi di problema soltanto di validità gnoseologica del sapere storico, ma di interpretazione valutativa, essendo la valenza pedagogica implicata nel problema della conoscenza storica. Scrive: “Affinchè la storia, anzichè corruttrice, riesca costruttrice, non basta descrivere, occorre valutare: eleggere ciò che costituisce acquisto positivo e respingere ciò che costituisce una manifestazione patologica della vita”[88]
TEMPO
Un io, dunque, quello umano, che appartiene alla storia. Il che comporta una concezione del tempo direttamente coinvolgente il senso della persona. Così la Stein: “Il nostro Io si è rivelato temporale, ossia come un’attualità puntiforme, che continuamente emerge alla luce in modo sempre nuovo”[89]. E Stefanini: “l’io si manifesta […] quale proiezione dell’unità nel tempo. Resto me stesso malgrado il mio proiettarmi nel tempo, in una successione di attimi che di attimo in attimo rischiano di dividermi da me”[90].
Quel “resto me stesso malgrado il mio proiettarmi nel tempo” dà il senso dell’unità inviolabile della persona. Dice la Stein: il “legame (Gebundenheit) di tutte le esperienze vissute del flusso [di coscienza] con il presente Io puro vivente costituisce la sua inviolabile unità”[91]. Soprattutto è “legame dell’Io con il corpo”[92]. La persona emerge sempre più come centro vitale e unificante tutte le esperienze. Scrive Stein che la persona è supporto in un senso ben diverso da quello di un quid impersonale. Precisa: “individuale” significa “incomunicabile”: “non può ricorrere più volte” come avviene per l’universale. Ma individualità non significa di per sé persona: “Dobbiamo ora determinare […] in che modo la persona si distingua dall’individuo psicofisico”[93], quando cioè “l’Io diventa cosciente delle «forze» che «sonnecchiano» nella sua anima, e in funzione delle quali vive; e la vita dell’Io è la realizzazione, l’attuazione cosciente di queste forze”[94].
Il termine attuazione, seppur con sfumature diverse, è ricorrente in Stein e in Stefanini; anche se, nella prima, ha significato più esteso e, nel secondo, più ristretto all’attività dello spirito. E’ termine che spesso sconfina con il significato di creatività, nel quale il senso della storia acquista essenzialmente quello di attività e produzione umana.
VALORI
Parlando di società e storia, quali prodotti (creazione) della parola e della parola che è persona, abbiamo sentito la Stein rievocare i valori, da lei descritti sotto vari aspetti. Lei nota, ad esempio, che nel “sentire il valore c’è una gioia del tutto ingenua e irriflessa del «creare» nella quale questo creare è sentito come valore. Nello stesso tempo in questa creazione «vivo» la mia forza creativa e me stesso come dotato di questa forza e la «vivo» come valore in se stessa. La forza che «vivo» nel creare e il potere che «vivo» simultaneamente ad essa, o anche per se stesso nel poter creare, sono valori personali autonomi e soprattutto indipendenti dal valore da realizzare [che può essere anche un valore negativo]”[95].
Se la mediazione dell’anima è la persona che si salda con se stessa e tiene unito spirito e corpo, pensiero e sentimento, notiamo che il sentimento è direttamente chiamato in causa nella costruzione della persona, come costruzione del senso stesso dell’identità personale. Secondo l’espressione stefaniniana: “Si può dire che l’identità personale sia «sentimento fondamentale» o sensus sui, purché non si attribuisca alla parola sensus o sentimento il significato di tenebroso e ineffabile”[96].
Ma proprio su questo versante della connessione tra valori e sentimento Scheler ha costruito gran parte della sua filosofia. Ora se sappiamo che la Stein molto deve alla figura di Scheler, nel suo orientamento positivo nei confronti del cattolicesimo, tuttavia lei se ne discosta sul piano teoretico per alcune ragioni che collimano con quelle evidenziate da Stefanini.
Stein e Stefanini avvertono entrambi il pericolo dell’emozionismo. L’errore di Scheler, dichiara Stein, è che “con il termine «Io» intende sempre l’«individuo psichico»“[97]. Al che Stefanini precisa: “la rivendicazione scheleriana della Persona avrebbe sortito il suo effetto, qualora la Persona fosse stata concepita come centro di energia cosciente, singolare e onticamente determinato, in cui il valore s’accende a sommo dello sforzo effettuato per conquistarlo, e si oscura o si perde ove s’attenui o si estingua questo sforzo che impegna la responsabilità e investe tutte le risorse razionali e volitive affettive dell’essere”[98]. Egli “entifica il valore come tale, ed elide la persona, che è l’unica entità da cui il valore ha principio e in cui il valore consiste” fa “della persona un mero sostrato portatore del valori (Wertträger)”[99].
Che cosa manca secondo Stein e Stefanini a Scheler? Manca l’apporto essenziale della razionalità conoscitiva, tale da non lasciarsi sovrastare dai dati di una prevalente funzione emotiva dell’intuizione.
Certo, la conoscenza si mescola al sentire, infatti “la conoscenza non ancora realizzata è sentita come un valore e questo sentire come valore è la fonte di tutto il tendere della conoscenza”. Ma c’è un “tendere cognitivo e un volere cognitivo” ed “il processo cognitivo stesso è attività, azione”. Deriva precisamente da qui “l’impossibilità di costruire una dottrina compiuta della persona […] senza la presenza di una dottrina del valore, e d’altra parte [contro Scheler] l’impossibilità che una dottrina della persona possa essere raggiunta a partire da una tale dottrina del valore”.
A parte la precisa presa di posizione nei confronti di Scheler, entrambi connotano il tendere della persona verso i valori come dimensione in cui conoscenza e sentimento sono essenziali. La persona libera non solo conosce, ma sente i valori: il “valore sentito, diventa […] rilevante per la costruzione della personalità”. Il che comporta una “lotta interna” in quanto “La persona ideale […] sente tutti i valori nella loro gerarchia”[100]. La conferma di Stefanini si muove in parallelo: “è l’esperienza psicologica che ci attesta clamorosamente qual è la natura del valore. Ciò che anzitutto amiamo e attraverso il quale passa ogni altro amore è l’io”[101]. Detto dalla Stein: “La misura del valore passa sempre attraverso l’io, sia pure quando l’io, col consenso della sua razionalità e del suo volere, inscrive ste stesso in una norma superiore, di cui riconosce la trascendenza”[102].
La conseguenza pertanto è che “Colui che è stato educato secondo «principi morali» e si comporta secondo questi, quando volge il suo sguardo «in sé», avrà la percezione soddisfatta di un «uomo virtuoso». Finché un giorno, in un’azione che sgorga dal profondo della sua interiorità, «vivrà» se stesso come una persona completamente diversa da quella che pensava di essere fino ad allora”[103].
Dunque valori ed educazione si richiamano a vicenda. Infatti, “L’educazione è possibile nell’uomo per la problematicità caratteristica ch’è intrinseca al suo essere”[104].
[1] E. STEIN, ESSERE FINITO E ESSERE ETERNO, per una elevazione al senso dell’essere, (1936) Città Nuova, Roma 19922, p. 34 [abbreviato EfEe]
[2] Stefanini, per le stesse ragioni della Stein, non accetta l’interpretazione heideggeriana del limite esistenziale dell’uomo, in quanto segnato pregiudizialmente da un’ontologia che assolutizza il tempo e si blocca di fronte all’esperienza della morte, caricandola del senso del destino ultimo dell’uomo.
La Stein denuncia l’“errore” di Heidegger e ne ridimensiona il discorso sul senso dell’essere, essendo una domanda che ricade su se stessa. “È chiaro, afferma, che l’intera dottrina sul tempo, così come è delineata in Essere e Tempo, ha bisogno di una trasformazione” LA RICERCA DELLA VERITÀ (antologia) a c. A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, p. 199 [Rv]; e “in relazione al modo in cui Heidegger ha usato il termine Esserci […] dovremmo intendere non solo la fine della vita terrena, ma la fine dell’uomo stesso – [ma se ] l’analisi dell’Esserci non è in grado di chiarire il senso della morte, allora essa non potrebbe dare una sufficiente spiegazione al senso dell’Esserci” Rv 189.
[3] Per cogliere lo spirito della modernità nel suo aspetto cruciale della prima metà del Novecento è utile studiare comparativamente i tre autori: Stein, Stefanini e Heidegger. In loro si constata come sia di estrema gravità la cosiddetta crisi della ragione e nello stesso tempo come sia altrettanto urgente chiedersi la modalità d’uscita onde salvare il senso dell’uomo. Dallo studio di quegli autori emerge che la perduta fiducia nella ragione è legata agli eccessi compiuti in suo nome, dall’illuminismo all’idealismo, dal positivismo al marxismo; e che rimane l’obbligo di fare i conti con la tradizione metafisica classica sul senso dell’essere ma, tuttavia, senza abbandonare le acquisizioni della modernità sulla centralità del soggetto umano, quale luogo privilegiato della ricerca della verità.
[4] Nota Stefanini: “Non si può dire che il pensiero moderno – pur muovendosi nella direzione dell’interiorità, della soggettività, dell’umanità; pur volendo escludere rigorosamente, nel campo dell’economia e della sociologia, ogni alienazione dell’uomo da se stesso; pur esigendo in tutti i campi della cultura, dall’arte alla scienza alla filosofia, che in ogni colloquio di cose l’interlocutore principale sia il soggetto cosciente – non si può dire che il pensiero moderno sia riuscito a salvare l’anima, nella sua dignità, nelle sue risorse essenziali, nella sua destinazione” L. STEFANINI, METAFISICA DELLA PERSONA e altri saggi, Liviana, Padova 1950, p. 7 [MtP].
[5] E’ l’epoca in cui nuove discipline avanzano in campo psicologico. Il soggetto umano, messo in primo piano dalla filosofia moderna nei procedimenti di accertamento della verità, si trova a misurarsi con le scienze sperimentali che si occupano della psiche (psicanalisi soprattutto). Il positivismo pare dettare ancora i criteri delle procedure di accertamento della verità, ma si sta sgretolando in affidabilità di fronte ai problemi di analisi della coscienza. Il vuoto che il positivismo sta registrando in quest’ambito non può in alcun modo essere colmato con la riproposta di una psicologia razionale di tipo tradizionale. I modelli di razionalità di tipo sistematico, illumistico-empiristico o idealistico, non riscuotono più la fiducia in certezze legate al metodo o a principi indiscutibili.
La filosofia è indotta a riconsiderare i tradizionali percorsi intorno ai grandi problemi, in chiave più sensibile all’esistenzialità vissuta dai singoli. E’ ormai evidente che i filosofi nel loro ambito speculativo, i politici con le masse divenute protagoniste della vita sociale, gli scienziati di fronte all’enigma della psiche umana, sono incapaci di trovare punti d’intesa universalmente condivisi. La crisi della ragione è, più specificamente, crisi dell’universale speculativo. Al suo posto Stefanini colloca l’interpersonale dell’esperienza personale. Non è un dettaglio lessicale. È la svolta, detta con termine abbastanza nebuloso, del personalismo. La persona, non considerata dalle grandi visioni speculative se non come corollario applicativo di principi generali, diventa centro e criterio di verità. Tutte le dimensioni del soggetto, non solo quella intellettuale di derivazione cartesiana, comportano l’abbandono di un uso troppo unilaterale dei sistemi logici autoreferenziali.
Sul versante psicanalitico il metodo positivistico di stampo freudiano appare un’arbitraria oggettivizzazione del fenomeno della coscienza, devitalizzata dell’anima. Sul versante idealistico, specialmente del neoidealismo italiano, si sono create concezioni storicistiche a svantaggio dell’autentica coscienza storica del singolo, favorendo contrastanti applicazioni pratico-politiche, dall’ideologia fascista all’ideologia storico-materialistica, sino al pragmatismo liberale. Forme di pensiero cui fa eco, di pari passo, l’ottimismo irrazionalistico di vario tipo, vitalistico nietzscheano, estetico futurista, incluso, paradossalmente, il clima di esaltazione tecnico-scientista (torre Eiffel e Titanic ne sono esempi eloquenti). Per non parlare dell’ottimismo in campo politico, con le varie utopie a carattere nazionalistico (che preludono a tragiche degenerazioni dittatoriali) o internazionalistico, proiettate sul futuro di un mondo a impianto capitalistico, nelle varie forme di imperialismo economico, o di impronta socialista. Nota la Stein: “La caratteristica individualistica del secolo XIX ha ceduto il posto, sempre più, ad una concezione sociale. Ciò che oggi vuole esser riconosciuto valido, deve giovare alla società” LA DONNA, il suo compito secondo la natura e la grazia, Città Nuova, Roma 1968, p. 279 [Dn].
In tale contesto storico, carico di contrasti, la tendenza ad instaurare un concetto di razionalità, che non comprometta il senso del vissuto di ognuno, in tutta la sua concretezza e drammaticità, e, nello stesso tempo, non tradisca le esigenze instaurate dall’avvento di nuove forme di partecipazione democratica, conduce Stein e Stefanini a teorizzare la centralità della persona, nei modi che vedremo.
[6] Pur poco reclamizzato il nome della Stein gode oggi di una diffusione editoriale di portata mondiale, anche in forza del riconoscimento ufficiale della canonizzazione religiosa. Per quanto attiene il riconoscimento sul piano strettamente filosofico nelle sedi accademiche, non mi pare si possa dire altrettanto.
Luigi Stefanini, rispetto alla Stein, fu più conosciuto in vita. Ma oggi è quasi scomparsa la presenza delle sue opere sul mercato.
I loro modi di fare filosofia, troppo poco assonanti con le mode in voga, suscitano un interesse marginale. Chi oserebbe dire che la filosofia della Stein è più profonda di quella di Heidegger? Di Heidegger s’è fatto gran clamore di citazioni, pubblicazioni, convegni, ecc., eppure a me pare che la Stein abbia dato molto di più al ricercatore di verità, all’amico della sapienza, al senso di autenticità nell’uso della razionalità umana. E di Stefanini chi oserebbe direbbe che il suo pensiero coglie l’autenticità dell’individuo e della vita, ed esprime, più di quello di un Nietzsche, le implicazioni della razionalità e dell’irrazionalità tra le contraddizioni vissute? Sembra, invece, che la fascinazione degli effetti speciali linguistici che le contraddizioni consegnate all’immediatezza provocano, sia più attraente della fatica della mediazione. Nietzsche ne è maestro impareggiabile, e anch’egli non scherza quanto a messe di consensi ottenuti.
Dispiace che molta parte del lavoro radicale e profondo dei nostri autori sia ancora sconosciuto, per motivi non facili da giustificare. Anche il recente risveglio di studi per la Stein non deve nasconderci che essa è autrice troppo impegnativa per coloro che, anche in campo filosofico, amano la superficialità del linguaggio ad effetto, seguendo le mode del momento. Lei ha voluto rinnovare la filosofia a partire da zero, seguendo in buona parte l’insegnamento di Husserl, ma con operazioni di recupero della tradizione del tutto originali. Originalità per diversi aspetti del tutto analoga all’operazione di recupero e di attualizzazione della tradizione compiuta da Stefanini.
[7] Usando una metafora per spiegare il metodo fenomenologico trovo utile l’esempio della Stein: per il postino che mi porta una lettera, questa è oggetto sia per lui che per me. Ma il modo di intenderla (intenzionalità) è diverso. Per lui è soltanto qualcosa da consegnare. Per me la lettera fa parte di un mio progetto in cui il postino non è coinvolto. Ma anche il modo soggettivo di considerare la lettera è oggetto di conoscenza, non solo la lettera presa a sè. Altro esempio: diversa è l’osservazione di un fenomeno (un chiodo piantato nel muro non è la stessa “esperienza vissuta” di un ago piantato nel dito). Oppure, un vissuto di guerra appare diverso a seconda dell’intenzionalità: “ho vissuto lo scoppio della guerra come la violazione del mio modo di vita personale e allo stesso tempo come il destino della comunità. Questi modi diversi dell’intenzione, sono intrecciati tra loro nell’unità dei vissuti e sono costruiti uno sull’altro. In un’analisi retrospettiva posso prenderne in considerazione uno senza l’altro” PSICOLOGIA E SCIENZE DELLO SPIRITO contributi per una fondazione filosofica (1922), Città Nuova 1996, pp. 169-170n [Pss]). Inoltre è chiaro che “le connessioni di senso esistono indipendentemente dal modo in cui si realizzano”: uno più veloce, uno più intuitivo, ecc. Si bada alla “visione chiara di rapporti prevalenti” Pss 194-195.
[8] Stefanini osserva che nella “logicità” della fenomenologia “essenza ed esistenza coincidono” e se Husserl dichiara di ottenere “un’ontologia perfetta”, “un’autentica ontologia universale”, si tratta di un’ontologia costruita “non più dal basso, dalla empiricità disordinata e contingente, ma dall’alto, dall’assoluto della coscienza trascendentale”. Una specie di “dittatura” in cui “Si perde l’esistente per riaverlo perfezionato e legittimato”. E’ la coscienza a sancire delle cose “le condizioni di possibilità e di realtà” IL DRAMMA FILOSOFICO DELLA GERMANIA, Cedam, Padova 19482, pp. 31-34 [DrG]. Tuttavia occorre ricordare che Stefanini rileva almeno sei punti di estremo “fondamentale” interesse, offerti dal tentativo husserliano (cfr. DrG 55-60).
Ma la Stein potrebbe esser ritenuta eretica rispetto all’ortodossia husserliana della fenomenologia, come eretico da molti veniva ritenuto Heidegger, che pur andava in direzione esattamente opposta a quella della Stein? O possiamo ritenere Stein e Heidegger due conseguenti interpreti delle possibilità intrinseche alla fenomenologia, che Husserl non aveva sufficientemente previsto? In entrambi i casi non penso che Stefanini si sarebbe riconciliato con la fenomenologia. Avrebbe probabilmente messo in risalto la aleatorietà di un metodo che arroccandosi su di una gnoseologia transcendentalistica, si prestava ad applicazioni opposte. Tuttavia, mentre con un Heidegger, rinchiuso in una temporalità assolutizzata, certamente non avrebbe trovato accordo, con la Stein la valutazione probabilmente sarebbe stata diversa. Troppe sono le coincidenze di linguaggio e di contenuto che accostano due impostazioni simili sia nel considerare i limiti della fenomenologia sia nell’apertura al Trascendente al di là del trascendentalismo. Ad esempio, la comune critica ad Heidegger, basata su ragioni riconducibili a note categorie metafisiche della tradizione medievale, sul significato di finitezza in relazione al significato di infinito, implicito ma necessariamente correlato con quello di finito ((cfr. di Stein Rv 217 ; e di Stefanini MtP 86).
[9] Sulle medesime critiche ad Heidegger v. nota n. 129.
[10] Invece la Stein: “Che cosa sia l’anima lo abbiamo compreso muovendo dall’esperienza interiore che ci ha offerto un accesso ad essa mostrandocela come la nostra interiorità nel senso più proprio” LA STRUTTURA DELLA PERSONA UMANA, Città Nuova, Roma 2000, p. 151 [StP].
[11] In EDITH STEIN. LA PASSIONE PER LA VERITÀ la A. Ales Bello evidenzia opportunamente tale intrepidezza dedicando il primo capitolo a Il coraggio della ricerca.
[12] GIOBERTI, Bocca, Milano 1947, pp. 333, 431, [G].
[13] Con Galileo e la sua adozione della distinzione tra qualità primarie e secondarie della realtà, oggettive le prime soggettive le seconde, il sistema aristotelico era stato compromesso. La filosofia, come sapere sull’uomo, ha subito il contraccolpo dell’indirizzo naturalistico della scienza moderna. La distinzione galileiana, per quanto metodologica, ha consentito progressi conoscitivi alle scienze della natura ma ha lasciato alla mercè del soggettivismo le scienze dello spirito. Essa si protrae nel riconoscimento di due piani della scienza, in scienze della natura e scienze dello spirito (Dilthey ne è un esempio sul terreno della scienza storica).
La Stein ebbe chiara l’intuizione che la modernità andava riscattata dalla frattura introdotta dalla scienza moderna, di cui è rielaborazione recente la “grande divisione” neopositivistica, tra proposizioni descrittive e proposizioni valutative: solo le prime hanno titolo per definirsi proposizioni sensate, secondo verità o falsità. A parere di Stefanini, però, anche la stessa fenomenologia era inficiata dall’assunto metodologico della pura descrittività applicata ai dati della coscienza: la conoscenza rimane impigliata nella logica della pura ipoteticità. Nonostante ci si appelli ad una originarietà del senso della vita, resta precluso in partenza l’accesso alla realtà, insito, invece, nella struttura dell’idea. Non si può ridurre la filosofia a scienza matematica. Sogno peraltro da sempre di grandi filosofi, da Platone a Cartesio, da Spinoza ad Husserl, appunto.
Se la Stein debba includersi in un simile giudizio è problema aperto. Esplicitamente lei lega tra loro i due tipi di proposizioni quando afferma: “In linea di principio tutto ciò che esiste può avere in sé un valore e l’indagine [descrittiva] non è esauriente se si è lasciata fuori la questione del valore” UNA RICERCA SULLO STATO a c. A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1993, p. 136 [RSt]. Il compito da lei assolto sta nell’aver portato alle più sottili conclusioni il metodo fenomenologico, sì da farne l’estremo tentativo di riscattare il mondo della vita, ossia la realtà dell’uomo, con tutta la sua esistenzialità, dalla marginalità cui era stato confinato dalla scienza moderna. Con un percorso parallelo a quello di Heidegger, lei incentra nell’essere stesso dell’uomo la ricerca del senso della vita, passando attraverso la ricerca del senso dell’essere, senza rimanere prigioniera delle autolimitazioni di Heidegger sul senso dell’Esserci. Ma anche senza attribuire alle scienze della natura l’arroganza di criterio primario di verità. E tuttavia occupandosi dell’uomo con il rigore di una scienza oggettiva, ma senza oggettivismi psicologistici e senza naturalismi fisicalistici (tutte forme unilaterali e insufficienti nell’affrontare il problema uomo).
[14] Legenda: l’uso di parentesi [ ] indica o parte del testo omessa e non necessaria alla sua comprensione, oppure un’aggiunta utile alla sua comprensione.
[15] PrFil 18.
[16] PrEd 118. “Non c’è categoria fuori dell’io, e le categorie della logica sono un sottoprodotto dell’unica categoria vivente che informa il mondo della nostra esperienza”. Pertanto, “Il principio di identità è l’io che consiste in se stesso in tutto quello che fa e vuole e pensa”. Ossia, “Unità, identità, produttività, finalità sono anzitutto intime appartenenze della persona, prima di essere le sue funzioni nell’interpretazioni del mondo” DrG 113.
[17] EfEe 73.
[18] In questo i cammini di Stein e di Stefanini sono paralleli. Anche Heidegger si muove sostanzialmente con il medesimo problema, alla ricerca della verità del Soggetto umano su se stesso, con la domanda sul senso dell’essere, coincidente con la domanda sul senso del proprio essere. Ma a differenza di Heidegger, Stein e Stefanini non restano imprigionati nella domanda e allargano l’orizzonte dell’essere, dall’orizzonte finito del tempo a quello oltre il tempo, intravisto e riconosciuto razionalmente, all’interno dell’esperienza personale vissuta nel tempo, come vedremo più avanti.
Solo apparentemente il cosiddetto esito relativistico, quale pericolo di soggettivismo, è obiezione attribuibile ad una filosofia della persona. L’intima e piena razionalità della persona non è sovrapponibile o subordinabile ad una razionalità ritenuta più universale soltanto perché più astratta. Il procedimento gnoseologico che fa leva innanzitutto sull’esperienza della propria identità personale, consente di pervenire all’identità dell’idea di essere, senza comprometterne la vitalità interna ed essenziale. Non è perciò indifferente il tipo di logica dell’essere che viene adottata.
[19] Stein e Stefanini non mi interessano soltanto perché filosofi cristiani, ma soprattutto perché filosofi che presentano notevoli affinità. Filosofi cristiani che nel Novecento hanno fatto notizia non mancano, ma raramente hanno fatto del tema persona una questione decisiva in rapporto alla concezione dell’essere, così come avviene nei nostri due autori. Le loro argomentazioni sul rapporto fede e ragione risultano caratterizzate diversamente rispetto ad altre correnti filosofiche di ispirazione tradizionale.
Mi interessano per le loro stesse vite che, pur diverse per certi aspetti, presentano sorprendenti analogie, come cercherò di ricordare. Esse riflettono, sul piano esistenziale, nella comune scoperta teoretica della centralità della persona umana, un’eccezionale testimonianza di coerenza pratica. Non è soltanto una dottrina, per quanto logicamente strutturata, a darsi come luogo primario dell’esercizio della razionalità, bensì la concretezza della vita reale, non disattesa da una razionalità puramente astratta. La concretezza della vita reale ha il nome della persona. Solo questa è principio e criterio di razionalità, a qualsiasi livello si svolga la ricerca della verità filosofica.
Tradotto nelle rispettive terminologie, per la Stein la ragione è il modo di presentarsi, e di farsi accettare, della vita come vita innanzitutto dell’IO, nella sua unità di Io puro ed io psichico. Per Stefanini la ragione è l’identità dell’io con se stesso, datore di senso a tutta la realtà, intesa nella sua estensione e apertura a tutta la verità, anche eccedente le certezze soltanto naturali, e sempre a partire dall’analisi psicologica dell’io personale: “Tra persona e ragione non c’è alternativa: bisogna sceglierle entrambe”ossia “La ragione (= la persona)” PrEd 28, 109.
Qui si incontrano le due direttrici fondamentali dell’interiorità e della coscienza, senza cadute in coscienzialismi di vario genere, o soggettivismi razionalistici autoreferenziali.
Alle tendenze dogmatiche o scettiche, acuitesi nel corso del Novecento, con i risultati irreversibili della ricordata crisi della ragione, Stein e Stefanini sono risposta vivente. Dal di dentro di quella crisi offrono l’indicazione dell’unica via perseguibile per superarla: la coerenza di vita, il rigore razionale, l’amore per la pienezza della vita, in ogni sua espressione, sì da autenticarsi quali filosofi della ragione moderna e cristiana. Se le scuole accademiche spesso li ignorano è per motivi probabilmente di inerzialità delle scuole stesse o forse anche per il pregiudizio che ritrae molti dal prendere in serio esame chi si dichiara religiosamente coinvolto nella pratica filosofica. Pregiudizio che intacca la chiarezza e la solidità di una ricerca volta a mettere in luce il senso profondo della funzione umana della filosofia, innanzitutto come atteggiamento metodologico.
[20] MtP 23.
[21] Sarebbe interessante uno studio dettagliato sul parallelismo anche delle loro stesse biografie. Nati entrambi nel 1891, a tre settimane una dall’altro, si dedicano per tutta la vita alla ricerca filosofica, nella consapevolezza della perdita di persuasibilità in cui versa la metafisica vecchio stampo. Si tratta di una ricerca caratterizzata dall’impegno militante, con forte accentuazione pedagogica. Una particolare sensibilità patriottica li contraddistingue nella partecipazione alla prima guerra mondiale. Anche l’amore per l’arte li accomuna. Per non parlare dell’attaccamento alla famiglia in cui riversano i loro migliori affetti. Li connota particolarmente l’intensa pratica religiosa, da persone di studio coerenti con le proprie convinzioni più intime (mi riferisco alla Stein già approdata al cattolicesimo). A tenerli legati tra loro sono le prese di posizione di pensiero contro i medesimi errori dottrinali del loro tempo e, da ultimo, il tema che più di tutto giustifica il loro accostamento in occasione del presente convegno: la concezione della centralità della persona. Per entrambi l’indagine speculativa deve procedere in interiore homine, superando la dicotomia dualistica di soggettività-oggettività. É sintomatico che, ignorandosi tra loro, ci forniscano un concetto di razionalità che, pur diverso sul piano gnoseologico, trova sorprendente convergenza nel criterio primo di verità: la coscienza che l’io ha di se stesso.
[22] L’esistenzialismo segna forse il movimento di pensiero che più di altri caratterizza il clima culturale in cui si ravvisano i sintomi di stanchezza e di delusione per i grandi sistemi filosofici che presumevano di dare alla sola ragione competenza e unica autorità sui temi fondamentali della vita. Esso rappresenta anche lo sbocco, dai molteplici volti, della tendenza alla preminenza della soggettività che, a partire dalla svolta cartesiana, ha improntato di sè il pensiero moderno.
In Heidegger si ha quasi il caso paradigmatico di tale clima e nello stesso tempo un estremo tentativo di irrinunciabilità all’autosufficienza della ragione proprio intorno al problema uomo. La necessità di mantenere la filosofia su un piano rigorosamente ontologico, come problema dell’essere, ma nel contempo di emanciparla da cadute antiumanistiche, in cui l’uomo perde il senso orgiginario del suo stesso essere, di un Esserci essenzialmente definibile nella sua temporalità, attinge un vertice di pensiero in cui davvero la modernità trova un suo esito coerente: nel privilegiamento della soggettività, nella disincantata presa d’atto della crisi della razionalità sistematizzante e, non ultimo, nella irrinunciabile autonomia della ragione stessa rispetto ad altre fonti di conoscenza.
L’autonomia della ragione, una volta assolutizzata e divenuta dogma a se stessa, non si emancipa dalla sua crisi costitutiva acutamente avvertita ed esaurientemente documentata in pensatori del secolo scorso (pensiamo ad Horchheimer), e rivela proprio in Heidegger tutta l’ambiguità di un estremo tentativo di salvarsi.
Se accettiamo questa considerazione interpretativa sul tempo in cui vissero Stein e Stefanini, siamo meglio in grado di apprezzarne i rispettivi percorsi filosofici. I quali, a differenza delle tradizionali filosofie della trascendenza o affini, pur avendo il medesimo obiettivo critico nel denunciare l’insufficienza del soggettivismo immanentistico moderno, assieme al suo corrispettivo contrario dell’oggettivismo naturalistico-positivistico, colgono il male alla radice. Immedesimandosi nel clima culturale del loro tempo, ne offrono, in piena consonanza, si direbbe empatica, una risposta ad un tempo moderna, epperò in grado di non ripiegarsi su se stessa. Superando la sfiducia nietzscheanamente dichiarata nei mezzi della razionalità e la morsa di un’indimostrata autonomia della ragione nel dotarsi di senso.
[23] La Stein rivela in questa sua autobiografia (STORIA DI UNA FAMIGLIA EBREA, Città Nuova, Roma 1992), che fu appunto la ricerca della verità il movente principale di tutte le sue scelte giovanili.
[24] Non ancora sedicenne scriveva: “so che nell’animo mio c’è tutto quello che abbisogna all’uomo, e che la verità e il bene non li fabbricano la storia o il progresso, ma che è esso la prova misura del vero e del bene; che esso non chiede se non di essere meditato, di essere educato con l’educazione che non lo sciupi. Lo faccio insomma per liberarmi dall’ambiente, dalle circostanze esterne, da tutta quella artefazione di cui la scuola e l’educazione e la società in cui viviamo ci opprimono, e per attingere solo dalla mia ragione e dal mio sentimento, tali quali me li ha dati la natura” (Archivio Stefanini/cartella verde/Manoscritti). Tale atteggiamento si conferma e si precisa nello Stefanini maturo (cfr. Il criterio d’autorità in «Humanitas», n. 10 (1949), pp. 926-932.
[25] Nella Stein la dinamica logica, che si muove intorno al tema della persona, mantiene un andamento descrittivo e analitico, volto ad evidenziare tutti gli elementi rilevanti, come essa stessa dice, “per la costruzione della personalità” L’EMPATIA (Zum Problem der Einfühlung 1917), Franco Angeli, Milano 19922, p. 190 [E]. In tale costruzione si evidenzia il procedimento più di una prospettiva teoretico-pratica, che una enunciazione direttamente metafisica. Anche se a questa lei perviene in modo compiuto e perfettamente rigoroso in Essere finito e Essere eterno. Il suo passaggio all’uso del termine persona avviene tuttavia sulla base del presupposto fenomenologico dell’individuazione del quid essenziale della personalità, posto al vertice di tutti i valori del vissuto esistenziale e attribuito all’Io puro. Tale passaggio non c’è in Stefanini. Egli segue piuttosto un percorso opposto. Parte dall’enunciazione intuitiva della persona come essere che si dice a se stesso, nella sua realtà psicologica e ontologica, in cui è intuita la struttura fondamentale dell’essere come essere personale e, per eduzione, come da un principio indiscutibile, si evincono le serie di articolazioni teorico-pratiche che ne fanno il suo sistema di pensiero. Tuttavia merita attenzione quanto siano parallele le loro distinzioni tra io puro e io psichico. Leggiamo in Stefanini: “non oggettiviamo a noi il nostro io puro e non ne tocchiamo le radici, ma oggettiviamo il nostro io vivo, cioè quale a noi si manifesta per quel tanto che ne diciamo di momento in momento” EaEt 306.
[26] Entrambi coprirono anche incarichi di insegnamento di Pedagogia.
[27] Che la verità per la Stein sia innanzitutto vita è da lei così sintetizzato: “Dove non si vedono le opere corrispondenti, si deve sospettare che dietro le grandi parole non si nasconda nulla, o si nasconda, al più, un eccitamento della fantasia o un sentimento fittizio” Dn 120. E per Stefanini vale “il senso dell’equivalenza di libertà, personalità, responsabilità e razionalità”. Ossia “Ragione e volontà non restano estranee l’una all’altra nel moto di liberazione che implica ad un tempo chiarezza della mente, rettitudine del volere e intensità del sentire. Nel giungere al suo limite, la scienza diventa sapienza, la ragione diventa virtù” PERSONALISMO EDUCATIVO, Bocca, Roma 1955, pp. 118-119 [PrEd].
[28] EaEt 301. In breve: a Stefanini non riesce accettabile l’atto della coscienza come coglimento di un dato interno della coscienza, quale atto intenzionante che rimane entro l’ambito della coscienza. A lui interessa l’atto significante della coscienza come atto conoscitivo in cui il soggetto mette del suo nella trasformazione dell’oggetto in idea, senza perdere per strada la natura mediatrice dell’idea che, invece, è sostituita, nella fenomenologia, dall’aver privilegiato l’immediatezza quale evidenza del dato.
[29] DrG 35. Nel 1954 ribadiva: “Nessuna specie di dogmatismo è tanto radicale quanto certa fenomenologia attualissima che registra passivamente i momenti del Dasein e perfino i dati mentali, rinunciando ad esplicare rispetto ad essi l’azione giudicativa e sintetica della ragione” PrEd 125.
Nel metodo fenomenologico, condizionato dall’ipoteca della sospensione del significato propriamente ontologico dell’oggetto conosciuto, reale ed esterno alla coscienza, questo rimarrebbe isolato e devitalizzato una volta imprigionato nella riduzione eidetica. Per dargli la forma del vissuto con la pura intenzionalità della coscienza? Che bisogno c’è, obietta Stefanini, di separare dalla vita del concetto, un vissuto interno solo alla coscienza? Non si introduce surrettiziamente, chiede, una logica di tipo irrimediabilmente immanentistico? Anche dichiarandosi esplicitamente emancipati da quella logica, come in effetti la fenomenologia ripetutamente asserisce, è pur sempre operante e sovrana in essa la logica di tipo trascendentalistico. Una asserita giustificazione del carattere intersoggettivo della comunicazione, non offre spazi plausibili alla metafisica della persona, alla sua irriducibile singolarità e specificità (dobbiamo accontentarci di queste semplici annotazioni e rinviare alla lettura diretta dei testi stefaniniani al riguardo (in particolare DrG).
[30] Così egli connota il popolo tedesco: “popolo che ha il gusto e la capacità delle analisi più minute e delle deduzioni più esasperate” DrG 235.
[31] EfEe 391-392.
[32] Da notare questo termine, legame. Lo riprenderemo verso la fine.
[33] EfEe 393.
[34] EfEe 394-395.
[35] EfEe 511.
[36] EfEe 401.
[37] Cfr. Pss 311. E così Stefanini: “Io sperimento in me ad ogni istante la primalità dello spirituale sull’empirico e sul corporeo” LA MIA PROSPETTIVA FILOSOFICA, Treviso, Canova 1996, p. 13 [MPF]. “Si deve anzitutto riconoscere come sua legge la seguente: ogni forma tende a compenerarsi in una forma di raggio maggiore, nella quale si risolve come elemento in un complesso o come parte di un tutto. Questa legge si deduce dall’altra, formulata inizialmente, per cui la coscienza non apprende il molteplice se non unitariamente” METAFISICA DELLA FORMA, Liviana, Padova 1949, p. 17 [MtF]. Ossia “E’ trascendentale l’unità della forma rispetto alla molteplicità degli elementi che la compongono, ma è trascendente l’unità del principio che compone l’organismo formale e la trascendentalità di questo sarebbe impensabile senza la trascendenza di quello [cioè l’unità del soggetto cosciente]” MtF 10.
[38] Pss 323.
[39] EfEe 386-7. Sulle dinamiche dell’anima, come rilevato, la Stein non trascura alcun aspetto che possa rientrare in una descrizione attendibile. Ed ecco che esiste un’ “accensione” [sorprende questo termine frequente anche in Stefanini!] dell’anima, con sue manifestazioni Pss 250; si dà uno sviluppo dell’anima che si rende visibile, anche se l’anima non ha sviluppo, in quanto non ha a che fare con il discorso di atto e potenza. E’ invece il “sentimento vitale” a comportarsi secondo atto e potenza Pss 254. Se va riconosciuta all’anima una struttura per cui “le qualità dell’anima non possono essere inculcate né eliminate,” e, se si trasformano, è effetto di una “forza soprannaturale”, mentre “le disposizioni originarie si sviluppano nelle qualità disposizionali”; il che interessa particolarmente la dinamica dell’educazione Pss 250.
Le dettagliate precisazioni steiniane ci offrono, nel contesto della centralità della persona, un’insostituibile complementarità nella prospettiva globalizzante stefaniniana, intorno ad ogni aspetto dell’esistenza e della conoscenza umana.
[40] E 186.
[41] Le Confessioni, L.IV, c.4.
[42] EfEe 398.
[43] Leibniz aveva tra i suoi problemi più importanti la definizione di natura individuale. Ad essa annetteva sesso, opere attuate, luogo di abitazione, ecc.: una serie di connotazioni che caratterizzavano un individuo essenzialmente rispetto ad altri individui.
[44] Diversamente da A. Pfänder che, su “tensioni e controtensioni esistenti nell’Io”, attribuirebbe quelle centrali al centro dell’Io e quelle eccentriche al corpo dell’Io, la Stein si orienta per una centralità del dinamismo dell’anima: “Abbiamo attribuito una particolare importanza all’anima (Gemüt) nella struttura dell’essere dell’anima (Seele). Esso ha infatti una funzione conoscitiva essenziale: è il punto focale in cui il contatto con gli esseri si muta in atteggiamento e attività personali” Dn 111. Per cui, ad esempio, “nell’ammalato bisogna tener presente tutto l’uomo, anche con i suoi bisogni spirituali” Dn 288.
[45] L’analisi della Stein sulla persona, rispetto a quella stefaniniana, guadagna in analiticità descrittiva. Stefanini fa leva su passaggi di rilevante sinteticità concettuale, dà per acquisite le dinamiche psichiche e punta decisamente sulla differenza tra il piano della naturalità psichica, legata alla necessità deterministica, e l’ordine della libertà spirituale, propria della coscienza intuita come realtà autonoma e superiore rispetto all’ordine puramente naturale. In lui la prospettiva dell’Io è centrale non tanto come oggetto da descrivere, quanto come soggetto che prospetticamente conferisce senso ad ogni descrizione della struttura della persona. Affidandosi all’intuizione unifica spesso sotto il termine di Io – molte volte sulla scorta della psicologia di Le Senne (cfr. EaEt 245ss) – i vari significati di Anima, Spirito, Coscienza, anche se non manca di distinguerli quando occorre.
Quando la Stein usa il termine Io, in senso stefaniniano (al di là dell’uso fenomenologico di Io puro), così si esprime: “Per Io intendiamo l’ente, il cui essere è vita ([…] sviluppo dell’Io in un essere, che sgorga da sé) e che in questo essere rappresenta il suo stesso essere momento interiore (nella forma inferiore del sentire confuso, o in quella superiore della coscienza desta). Non si identifica né con l’anima, né col corpo. […] è presente in ogni punto in cui sente qualcosa di presente e di vivo, anche se propriamente risiede in un determinato punto del corpo, e in un determinato luogo dell’anima e poiché il suo corpo e la sua anima gli appartengono, il termine Io si riferisce a tutto l’uomo” EfEe 395-396. E ancora: “Per persona abbiamo inteso l’Io cosciente e libero […] «padrone delle sue azioni», perché determina da sé la propria vita – mediante atti liberi. Gli atti liberi sono la prima sfera di dominio della persona […]. Ciò che fa liberamente e coscientemente, è vita dell’Io, ma essa la trae dal profondo […] e questa profondità è la profondità dell’anima, che diventa «viva» nella vita dell’Io e illumina, mentre prima era nascosta, però nonostante questo illuminare rimane nascosta” EfEe 397-398.
Al di fuori di queste asserzioni sull’Io, potremmo chiederci se Stefanini avrebbe mosso alla Stein l’obiezione che la Stein muoveva ad Heidegger: l’aver scambiato il significato dell’essere con la procedura, il come della scoperta del senso dell’essere, al posto della vera domanda sul che cosa dell’essere (cfr. Rv 213-215). Risulta infatti rilevante nella Stein la prevalenza descrittiva del come della persona piuttosto che la domanda del che cosa sia la persona. Tuttavia, simile obiezione non avrebbe senso nell’insieme della visione della Stein che sfocia alla fine in un tomismo riveduto e corretto (fa un certo effetto riscontrare in Stein e Stefanini la medesima obiezione a Tommaso sul principium individuationis materiae e, insieme, la rivalutazione della prova ontologica anselmiana).
Il procedimento meticoloso della Stein l’ha portata ad analisi insuperabili, ad esempio, su:
la psiche (“alla psiche appartiene […] tutta la molteplicità di qualità «sensibili» e intellettuali” ma non la “coscienza originaria”);
il carattere (“insieme di qualità psichiche”);
la percezione (“La percezione interna in quanto appercezione unitaria ha come suo oggetto la psiche come un tutto – come la percezione esterna la cosa -, e racchiude in sé molteplici aspetti, componenti indeterminate e vuote, che permettono e richiedono una determinazione più profonda ed un riempimento: in parte attraverso un procedere ulteriore nelle connessioni percettive, in parte attraverso il ritorno al vivere originario”; “Di fatto non ci cogliamo semplicemente come soggetti psichici, ma l’autopercezione è sempre percezione di tutta la persona, del suo corpo come della sua «anima»“; quanto ai vissuti “La percezione interna li coglie come stati della persona – del soggetto psichico – o coglie la persona come trovantesi in questi stati”, per cui deve la sua esistenza “alla capacità della persona” ed “agli altri stati psichici” da cui è influenzata, “alle azioni che esercita su altri stati psichici”; inoltre, poiché la percezione interna ricorre sempre in ultima istanza alla “coscienza originaria”, in definitiva, la percezione della psiche è volta intorno alla libertà e all’attività della persona);
la riflessione “Mentre la riflessione pura deduce soltanto dal vissuto della gioia ciò che è presente in esso stesso, cioè il suo dirigersi a questa o quella cosa piacevole, la sua intensità, il suo calore, la sua precisa colorazione […], la percezione interna porta in sé la co-apprensione della sensibilità psichica” Cfr. INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA, Città Nuova, Roma 1998, pp. 231-239 [If].
[46] Pss 152.
[47] EfEe 395.
[48] L’interiorità è la grande scoperta di entrambi. Come mai tanta convergenza tra Stein e Stefanini sul tema dell’interiorità? Innanzitutto perché sospinti dalle filosofie moderne della soggettività. In tale contesto, inoltre, è quasi d’obbligo per loro ritrovarsi, in quanto credenti, nella comune grande tradizione agostiniana. In particolare lo fanno a partire dalle filosofie dell’esistenza, che dibattendosi in angosciose autolimitazioni sterili e disperanti (Heidegger non è il solo) compromettevano il senso stesso della vita; ed anche per reazione a oggettivismi che mettevano in disparte la vita della coscienza (positivismo, pragmatismo).
Ogni indagine su questa strada comporta la complessità che estendendosi a tutti gli aspetti della soggettività li riscontra non riducibili a misurazione quantitativa. Una sensazione ha un lato quantificabile, attinente la fisicità di un corpo vivente, ma contemporaneamente attinge una psiche e diventa esperienza di una coscienza. L’uomo “sente o percepisce ciò che accade nel suo corpo e con il suo corpo, ma questo sentire è un sentire cosciente, tale da trasformarsi nella percezione intellettuale del corpo e dei processi vitalie nella percezione di quanto del mondo esterno «cade sotto i sensi». La percezione è già conoscenza, è un agire spirituale” EfEe 393. A sua volta la coscienza vive vari livelli di apprensione di una sensazione sino a trasformarne i contenuti in rappresentazioni, in sentimenti, in reazioni più o meno riflesse.
[49] EaEt 307.
[50] EfEe 385.
[51] E’ superfluo ricordarlo, ma quando si usa il termine parola il significato non è nel senso restrittivo di suono verbale. Così precisa Stefanini: “Parola è propriamente ogni segno che l’uomo pone di sé nelle cose, per manifestarvisi: un sasso scolpito, un codice miniato, una linea d’arte, una stele marmorea e un tempio, una formula algebrica e una legge scientifica, un’impresa industriale e un’opera di bene: il sorriso del neonato che dona le primizie dello spirito e la preghiera mormorata dal morente” PrEd 88.
[52] “La nostra parola ci costituisce nel nostro essere. Tutto quello che ci sta alle spalle dobbiamo porcelo di fronte, esprimendolo da noi. […] è la legge del nostro spirito: «diventare frontali», «visualizzarci». […] Il mondo, il corpo, gli altri, la società, la storia, il nostro essere, Dio: tutto diviene qualche cosa per noi nell’atto nostro con cui a noi lo significhiamo [sto citando Stefanini, non la Stein!]. Tutto è per noi nella nostra parola. Parola è il mondo. Finché l’impressione che le cose determinano in noi non è superata in una imagine che, da noi espressa, ci significa le cose, noi siamo cosa tra le cose” EaEt 310-311
[53] Dn 255.
[54] Dn 239.
[55] Dn 243; “la doppia rivelazione visibile del Logos: nel Verbo fattosi Uomo e nel mondo creato. Un altro passo ulteriore ci porterebbe a riflettere sull’inseparabile appartenenza reciproca del Logos «fatto Uomo» e «fatto mondo», nell’unità del «Capo e del Corpo – un solo Cristo»“ EfEe 159.
[56] Personalismo e ontologia, in PERSONALISMO FILOSOFICO, Morcelliana, Brescia 1962, p. 11 [PrFil].
[57] MPF 11-12.
[58] C’è anche un aspetto interpretativo di ordine filologico con cui Stefanini vede la parola legata alla storia, come al luogo autentico dell’esperienza umana, ed è in contrapposizione alle tesi di W.v. Humboldt, il quale prospetta una lingua ideale ottenuta, dice Stefanini, “fuori delle condizioni reali dell’esperienza”. “Il purista la [lingua] conserva gelosamente […]; ma il dinamismo della vita continuamente la corrompe, e dalla corruzione la lingua esce arricchita […]. Per avvicinarsi all’individuale e all’attuale la lingua muta nello spazio e si evolve nel tempo”. Così le varie parlate “s’individuano in mille accenti, in mille cadenze, in mille flessioni, riecheggiando fedelmente l’anima di ogni borgo e di ogni valle” Im 98-99. Le mutazioni storiche della lingua hanno la loro prima spiegazione nell’intervento creativo dei singoli, pur nell’interazione col collettivo.
E’ esattamente la posizione della Stein quando vede la priorità del momento individuale nella creazione dello spirito di un gruppo, di una comunità, di una società. E’ quindi la persona ad essere centro dell’evento comunicativo. Nel legame tra società e storia è in gioco l’elemento creativo dei singoli, ossia delle persone, le quali generano la comunicazione storico-sociale di una collettività.
Così Stefanini: “Possiamo farci intendere dagli altri soltanto perché il logo interiore, saldando nell’intima coerenza i vari momenti dell’io e salvandoci dalla dispersione, ci rende innanzitutto intelligibili a noi stessi. Il passaggio dal linguaggio individuale al linguaggio universale non è dal singolo alla collettività, se prima non sia stato, nel singolo, dalla sua vita rappresentativa e intuitiva alla razionalità che gli è intrinseca” Im 101. Egli ha in mente Vico e Bergson. Li rievoca a pieno titolo circa il senso della creazione artistica, che mette al mondo una realtà nuova, innanzitutto come espressione di se stessi nella storia.
[59] Dn 255.
[60] Dn 254.
[61] Im 147.
[62] EaEt 311.
[63] EaEt 300.
[64] EaEt 313.
[65] PrFil 3.
[66] EfEe 397.
[67] E 194-195.
[68] If 232.
[69] Dn 285.
[70] Dn 164.
[71] Personalismo sociale e sociomorfismo, in AA.VV., Filosofia e sociologia, Il Mulino, Bologna 1954, p.123 [FilSoc].
[72] FilSoc 127, 133.
[73] La condizione è data dal legame con la corporeità: “lo spirito dell’uomo è condizionato dall’alto e dal basso: è affondato nella sua struttura materiale, che esso anima e forma dandole la sua forma corporea” EfEe 386.
[74] Irrazionalismo e persona in PrFil 151.
[75] “speciale” nel senso letterale del termine. La Stein introduce la categoria della specie applicandola all’essere femminile in rapporto all’essere maschile: “Lo studio dell’uomo deve chiarire il senso della differenziazione sessuale, deve esporre la vera realtà della specie. E deve poi fissare la posizione che questa ha nella struttura dell’individuo umano, i rapporti dei tipi alle specie e all’individuo, – determinare le condizioni della formazione dei tipi”. Pertanto, “dove cessa il lavoro delle scienze positive, comincia la problematica della filosofia. Essa non può acquietarsi di fronte a un fattore x presente in una realtà naturale. Io vorrei affermare che essa è in grado di scomporre questo fattore x in tre elementi (divisibili solo astrattamente, non realmente): la specie uomo, la specie donna, l’individualità”. Per cui “Sono convinta che la specie uomo si articoli in due specie: specie virile e specie muliebre, e che l’essenza dell’uomo, alla quale nell’un caso e nell’altro nessun tratto può mancare, giunga in due modi diversi di esprimere se stessa [..:] non sono differenti solo alcune funzioni fisiologiche particolari, ma tutta la vita del corpo è diversa, il rapporto dell’anima col corpo è differente, e nell’anima stessa è diverso il rapporto dello spirito alla sensibilità, come il rapporto delle potenze spirituali tra di loro. La specie femminile dice unità, chiusura dell’intera personalità corporeo-spirituale, sviluppo armonico delle potenze; la specie virile dice elevazione di singole energie alle loro prestazioni più intense” Dn 204.
Inoltre: “Ho già parlato della specie donna. Con specie dobbiamo intendere qualcosa di fisso, che non può mutare. La filosofia tomista usa in questo caso anche l’espressione forma, e intende la forma intima che condiziona la struttura di una cosa. Il tipo non è immutabile nello stesso identico senso della specie. Infatti, un individuo può passare da un tipo all’altro […]. La forma interiore o specie, determina un arco, entro il quale i tipi possono variare.
E’ ben chiaro dunque che il problema della specie donna è principio e fondamento di ogni problema femminile. Se esiste realmente questa specie, essa non potrà essere cambiata da nessun mutamento delle condizioni di vita […]. Se non vi è questa specie, si deve ritenere che l’uomo e la donna sono distinti tra di loro solo come tipi, e non come specie”; “questo problema fondamentale riguardante la donna ci rimanda ai principi filosofici. Per poter esaurientemente risolverlo, bisogna conoscere chiaramente il rapporto fra genere, specie, tipo, individuo, cioè i problemi dell’ontologia formale, cui mirava Aristotele, come mi sembra, con la sua filosofia prima”. Le sole ricerche di psicologia sperimentale “non possono arrivare a distinguere se questa particolarità [del sesso] si debba riguardare come tipo variabile o come specie fissa” Dn 187, 185, 190 (per queste considerazioni metafisiche lei si rifà agli studi di Th. Angelica Walter).
[76] Dn 235.
[77] Dn 159.
[78] Dn 147.
[79] L’analisi del significato di partecipazione e di imitazione condotta da Stefanini sulla scorta dei suoi studi su Platone apre la via che abbina tradizione classica e patrimonio della modernità, nel conferire significato alla parola essere. Ecco allora che l’essere non è una oggettività a sé stante ma scaturisce all’interno del senso di persona (v. sotto paragrafo su Mimesi e Metessi).
[80] Così la Stein: “L’orientamento verso la persona è giustificato e valorizzato dal fatto che proprio la persona sta all’apice di ogni valore oggettivo. Ogni verità è conosciuta dalla persona, ogni bellezza è contemplata e apprezzata dalla persona. E dietro a tutto ciò che nel mondo ha valore, vi è la persona del Creatore, che racchiude in sé come esemplare, e insieme trascende, il valore terreno. Tra le creature, proprio la persona rappresenta la sua immagine più alta, la persona che, nell’ambito della nostra esperienza quotidiana, è l’uomo. E precisamente l’uomo in cui l’immagine di Dio ha trovato il suo sviluppo più genuino”. L’umanità completa è compito realizzabile “solo se si possiede il retto orientamento alla persona” Dn 281. “Per mezzo suo [di Cristo] acquistiamo la vera umanità, e insieme il retto orientamento personale” Dn 284.
[81] ENCICLOPEDIA FILOSOFICA, Sansoni, Firenze 1967, vol.II, col. 1075.
[82] FilSoc 126.
[83] EfEe 398.
[84] Cfr. Pss 312.
[85] Circa la storia l’interesse di Stefanini riguarda prevalentemente la filosofia della storia. Anche se prende in diretta considerazione l’impostazione di Dilthey, con dichiarato apprezzamento, ne coglie un elemento di immanentismo che gli ricorda l’altra assolutizzazione del mondo della storia di tipo idealistico. E’ qui dov’egli interviene compiendo un’operazione che, per la sua arditezza, susciterà scandalo negli ambienti sia laico-idealistici che cattolico-neotomisti: la sua interpretazione della storia da “idealista cristiano”, secondo l’dealismo perenne, non storicistico. Interpretazione in cui l’apporto storico del cristianesimo è visto (sia in Idealismo cristiano del 1929 che in La Chiesa cattolica del 1944) come superamento di quello che viene detto il naturalismo sia classico che moderno.
Non è una casualità che, sul tema del superamento del naturalismo, Stein e Stefanini concordino nel ritenerlo insufficiente alla realizzazione della piena maturità umana. Persino il linguaggio è identico. L’uniformità delle loro posizioni dipende evidentemente dall’accettazione della visione cristiana. Dice infatti la Stein: “chi non trova Dio, non realizza neppure se stesso (anche se si dà da fare) e non giunge alla fonte della vita eterna, che lo attende dentro di sè” EfEe 518. E Stefanini: “L’uomo non può possedersi se non si possiede in Dio” perché “non posso trarre alla luce con la mia parola le profondità del mio essere senza includervi qualche senso di quel Dio al quale in tal modo sono congiunto e che, si potrebbe dire, causalmente si prolunga in me” MPF 24.
[86] EaEt 312.
[87] Ritorna il problema fenomenologico della comprensione intersoggettiva (problema che Husserl stesso riconosceva di non aver risolto con il suo trascendentalismo gnoseologico). Come rendere plausibile l’intersoggettività, ossia la conoscenza tra persone, e conferire un significato di oggettività agli eventi della storia? Così imposta il problema la Stein: “ci deve essere […] una ontologia dello spirito corrispondente alla ontologia della natura. Come le cose naturali hanno una struttura soggiacente alle leggi essenziali […] così c’è anche una struttura essenziale dello spirito” (E 174-5). Problema di Husserl, dunque e problema di Dilthey. La risposta della Stein è tutta in quell’originale tesi di laurea sull’Empatia che rimane l’apporto suo più originale nella storia del pensiero.
[88] DrG 196.
[89] EfEeEf 78.
[90] MPF 13.
[91] E 101.
[92] E 111.
[93] E 191.
[94] EfEe 398.
[95] E 184.
[96] PrFil 2-3
[97] E 88.
[98] DrG 114-115. Nella “esasperazione del metodo fenomenologico” Scheler fa torto ad Husserl. Questi, almeno, “aveva introdotto una qualche mediazione dialettica nel seno stesso dell’immediato e dell’essenziale” e ammetteva una sproporzione “tra il pensato e il dato”. Invece “I valori scheleriani, più delle idee husserliane pretendono di librarsi per forza propria nel cielo della coscienza” e mancano della saldatura “alla concreta esperienza dell’individuo e delle generazioni, all’ethos di un popolo e di un momento della storia”. In Scheler “il valore è appena visibile o intuibile, non definibile”. Tale immediatezza, congenita all’intenzionalità della coscienza, esclude l’apporto della riflessione e sancisce un’“etica materiale dei valori, in opposizione al fomalismo kantiano” in cui è solo il valore a decidere ciò che vale o non vale: la volontà non interviene a produrre alcun bene da sé. Ma “Il capovolgimento dei valori a cui lo Scheler vorrebbe sottoporci con l’improduttività del volere è ben più detestabile di quello ch’egli condanna nell’epoca nostra”. La scelta nella scala dei valori “non deriva da discernimento razionale, ma da un sentimento preferenziale (Vorziehen) intrinseco a ciascun valore” DrG 66-80.
La sua analisi dell’amore si connette direttamente al “supporto permanente dei valori ch’è la persona” e lo fa nelle sue “pagine più belle”. Però “la spontaneità scheleriana dell’amore rimane a metà strada”. Condizionato dal “presupposto fenomenologico dell’intenzionalità” non attualizza “pienamente l’amore quale perfezione dell’atto spirituale ch’esprime il suo oggetto nella calda emotività creatrice”: “l’amore è produzione ed è visione”, non oggetto che “si rivela come dato” DrG 85-86.
[99] PrEd 26.
[100] E 190-191.
[101] EaEt 326.
[102] MtP 14.
[103] E 194.
[104] DrG 155.
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