Luigi Stefanini e la rivista “Studia Patavina”
Gregorio Piaia
La nomina del nostro don Stefano a direttore della rivista «Studia Patavina» assume per tutti noi un significato speciale, dato il ruolo che Luigi Stefanini ebbe nella nascita di questo periodico. Mi limiterò qui a pochi richiami, ma il tema meriterebbe un’indagine approfondita, con il ricorso a precise fonti documentarie. Diamo dunque uno sguardo alla copertina e al frontespizio del I numero della rivista (gennaio-aprile 1954). Lasciando per il momento da parte il titolo, ciò che colpisce è il sottotitolo («Rivista di filosofia e teologia»). Che la filosofia venga prima della teologia si può naturalmente intendere in senso tomistico, quale percorso di preparazione all’indagine teologica, ma esprime anche il ruolo autonomo che la filosofia ha rispetto alla religione. Spicca poi l’assenza di un direttore: v’è solo una «Redazione» (composta da Ireneo Daniele, Siro Offelli, Umberto Antonio Padovani, Arcangelo Rizzato, Luigi Stefanini) senza l’indicazione dei rispettivi titoli (prof. o mons.), e v’è un «Segretario di redazione» (Luigi Sartori), la cui sede è «via Seminario 11, Padova» (è omessa l’indicazione «presso il Seminario vescovile», anche se la rivista risulta stampata nell’antica e gloriosa tipografia del Seminario). L’unico segno ‘ecclesiastico’ si ha nella «Presentazione», firmata da «Sua Ecc. Mons. G. Bortignon, Vescovo di Padova». Siamo, s’è detto, nella primavera del 1954, ossia negli ultimi anni del pontificato di Pio XII. L’annuncio della convocazione del Vaticano II da parte di Giovanni XXIII è del gennaio 1959 e i lavori conciliari avrebbero avuto inizio, com’è noto, nell’ottobre ’62. Vista in prospettiva, nel suo piccolo la nascita di «Studia Patavina» appare ispirata a quello spirito di sana laicità (intesa come superamento della tradizionale mentalità chiesastica) che avrebbe poi connotato l’atmosfera conciliare. Trovare Stefanini fra i promotori di tale iniziativa è un chiaro riflesso dell’orientamento religioso e culturale che contraddistinse gli ultimi anni della sua vita.
Ma procediamo con ordine e veniamo al titolo: «Studia Patavina» non allude propriamente agli studi filosofici e teologici condotti a Padova, ma alle sue due maggiori istituzioni culturali (o Studia, com’erano chiamati in età medievale e moderna), ossia l’Università e il Seminario, lo Studium civile e quello ecclesiastico, che nel corso dei secoli intrattennero rapporti ora di antagonismo (soprattutto nel Quattro-Cinquecento e nel secondo Ottocento) ora di interazione, in particolare nel Settecento (si pensi a Melchiorre Cesarotti, docente di retorica nel Seminario, chiamato nel 1768 ad insegnare greco ed ebraico all’Università). Di evidente ispirazione stefaniniana è il progetto di una rivista come luogo di confronto e incontro tra filosofi e teologi, nell’intento di superare il fossato creato nel 1873 con l’esclusione dal sistema universitario italiano della Facoltà di teologia, divenuta terreno esclusivo delle istituzioni ecclesiastiche e vista dalla maggior parte degli intellettuali come una sorta di ghetto.
È il momento di rivelare ai lettori più giovani lo status dei promotori della rivista e dei collaboratori al primo fascicolo. La redazione è formata da tre ecclesiastici (lo storico della Chiesa Ireneo Daniele, il teologo e storico della teologia Siro Offelli, il biblista Arcangelo Rizzato) e due professori universitari (Umberto Antonio Padovani, che nel 1948 s’era trasferito a Padova dall’Università Cattolica di Milano sulla cattedra di filosofia morale, e il nostro Stefanini), mentre l’allora giovane segretario di redazione, Luigi Sartori, è un teologo. Questa sorta di intreccio fra studiosi laici ed ecclesiastici si ritrova negli studi e nelle recensioni apparsi su questo numero di «Studia Patavina», ove i contributi di carattere storico (sulla dimostrabilità dell’immortalità dell’anima nel Concilio Lateranense V, su natura e grazia in s. Bernardo, sull’agostinismo in s. Bonaventura e in s. Tommaso, su Aristotele e l’evoluzionismo) si accompagnano a quelli di natura più teorica. Fra gli autori di recensioni vi sono due allievi di Stefanini assai legati fra loro e che tali resteranno per tutta la vita: Giovanni Santinello e Armando Rigobello. Dal canto suo Stefanini collaborò con un articolo dal titolo Filosofia e religione, che riporta la relazione da lui svolta ad Assisi nel dicembre 1953 all’VIII convegno giovanile della “Pro Civitate Christiana”, dedicato al tema «Le religioni nella storia dell’umanità» (l’articolo fu poi ristampato nel volume Personalismo filosofico, apparso postumo nel 1956).
Ripercorriamo qui brevemente questa relazione, che Stefanini imposta con la consueta lucidità. Il rapporto filosofia-religione può essere inteso in senso monistico oppure dualistico. Nel primo caso si ha la riduzione della religione a filosofia (come avviene nelle varie forme di intellettualismo antico e moderno) oppure della filosofia a religione (fideismo). Nel secondo caso si ha una distinzione tra filosofia e religione, che storicamente ha avuto sbocchi assai differenti: da un lato la teoria averroistica della doppia verità oppure la riduzione della fede a un fatto sentimentale, dall’altro il realismo cristiano di s. Tommaso, per il quale la ragione, se impiegata in modo corretto, è in grado di giungere a dimostrare l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. Stefanini si sofferma su quest’ultima posizione: si tratta ‒ egli sottolinea ‒ di un problema che «non riguarda soltanto gli specialisti di filosofia bensì tutti gli esistenti che consapevolmente intendono insediarsi nell’essere, con un senso vigile delle proprie responsabilità». E dopo aver citato una frase di Benedetto Croce, che era morto un anno prima («Ogni uomo è un filosofo pratico»), Stefanini precisa che «la filosofia sarebbe vuota se non esprimesse la consapevolezza più alta della umana esistenza, come l’umana esistenza sarebbe cieca se rifiutasse di elevarsi alla conoscenza di sé e, in sé, del Principio che la costituisce».
È un percorso filosofico che muove dall’esterno (ossia dalla «cosmologia») per poi prendere coscienza della propria interiorità («psicologia») e innalzarsi infine alle verità superiori («metafisica»). Ritroviamo qui il filosofo della persona: «L’uomo ha bisogno del mondo per riconoscersi, ma il mondo, in cui si riconosce, non è ciò che si riconosce nel suo rapporto col mondo. L’epifania sensibile non è il nostro natale, perché l’io esubera con una sua primalità irriducibile su tutte le condizioni empiriche e sulla situazione concreta, nella quale è immerso senza affondare in essa. V’ha un momento di grazia, per ogni anima generosa, in cui l’io s’incontra con se stesso e si riconosce». L’io viene così a riconoscersi progressivamente come «unità e identità», come «sostanza, cioè come ente piantato in se stesso», come «dignità», come «spiritualità incarnata» nello spazio e nel tempo, e come «produttività», in quanto capace di atti di cui si riconosce responsabile, sino al passaggio dall’«interno al superno», sotto la spinta della propria finitezza. Un passaggio che inizia con la riflessione metafisica e si trasfigura poi nella dimensione religiosa:
«Precisamente perché l’idea umana di Dio non esaurisce Dio e resta aperta sulle sue inesauribili profondità, la filosofia resta aperta sulla religione. Non pretende, non esige un ordine sovrannaturale, quasi essa fosse capace di reggerlo colle proprie forze, facendolo ricadere nell’ordine umano e naturale. Ma quello che all’uomo è impossibile rispetto a Dio, è possibile a Dio rispetto all’uomo. La filosofia conclude con questa possibilità, la quale si avvera di fatto quando nell’ordine storico Dio si rivela e aggiunge al dono della creazione altre Parole con cui si manifesta, aggiunge dei carismi, cioè delle grazie soprannaturali che completano, correggono, guariscono la natura inferma e decaduta, quando all’uomo che, come dice S. Bonaventura, è consummatio creationis, si aggiunge il Cristo che è consummatio hominis, l’Uomo-Dio, che sublima l’umanità, incarnandosi. La filosofia è l’uomo che mette in sé Dio; la religione è Dio che mette in sé l’uomo. La filosofia è Dio significato dall’idea umana; la religione è Dio posseduto in realtà. La filosofia ci dà nozioni; la religione ci dà un’esperienza. La filosofia ci fornisce una direzione e un orientamento, ci fa vedere di lontano la meta, ma non ci insedia nella meta, come fa la religione»…
Questo articolo di Stefanini costituiva dunque, sul piano generale, il manifesto programmatico della nuova rivista, mentre sul piano locale sanciva l’avvenuto superamento di quella estraneità (se non opposizione) della filosofia alla religione che aveva contraddistinto l’Università di Padova per circa sessant’anni a partire dalla chiamata di Baldassare Labanca e Roberto Ardigò (con l’eccezione di Francesco Bonatelli e poi di Antonio Aliotta, con il quale Stefanini s’era laureato). A questo punto verrebbe da chiedersi se e in che misura il progetto sotteso al titolo e sottotitolo della nuova rivista sia stato realizzato. Non è questa la sede per questa disamina, ma è realistico pensare che la scomparsa di Stefanini quando la rivista muoveva i primi passi abbia inciso negativamente, per il venir meno di una figura che all’elevato spessore intellettuale univa una fitta rete di relazioni personali e una forte capacità di motivare e mobilitare, che non trovava un adeguato riscontro nell’altro filosofo, Umberto Antonio Padovani, che faceva parte della redazione. D’altro canto i tempi presero a mutare velocemente e non è un caso che nel 1968 il sottotitolo «Rivista di filosofia e teologia» sia mutato in «Rivista di scienze religiose», lasciando così sullo sfondo il richiamo originario ai due “Studi” patavini e togliendo alla filosofia il ruolo di primadonna, sia pure condiviso con la teologia. Erano anni tumultuosi, in cui anche a Padova la filosofia nella sua accezione più tradizionale (ed elevata) sembrava destinata ad essere soppiantata dalle scienze umane o a ridursi a un supporto nobile dell’azione politica. Di qui, forse, l’intento di ripiegare nella sfera religiosa, salvo conferire a tale manovra un carattere rigoroso con il richiamo (da taluni giudicato pretestuoso e infondato) alle “scienze religiose”. Questo cambiamento non comportò il venir meno della collaborazione tra docenti dell’Università e docenti del Seminario Vescovile: chi scrive, ad es., coordinò nel maggio del 1980 un simposio su “Marsilio, ieri e oggi”, dedicato alla figura e al pensiero dell’eretico Marsilio da Padova nel VII centenario della nascita e al quale presero parte diciassette fra docenti laici ed ecclesiastici. Ripercorrendone gli atti, apparsi in quello stesso anno sul n. 2 di «Studia Patavina», si coglie un riflesso significativo della temperie intellettuale di quel periodo, con i docenti universitari che si muovevano con cautela fra le pieghe insidiose delle dottrine marsiliane, mentre i docenti del Seminario, partecipi del clima post-conciliare, prendevano le distanze dalla condanna ufficiale emessa a suo tempo dalla Chiesa, ribaltando l’immagine dell’eretico padovano.
Nel 1984 «Studia Patavina» divenne l’organo ufficiale della sezione di Padova della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Con la successiva trasformazione di tale sezione in Facoltà pienamente autonoma, nel 2011 il sottotitolo della rivista fu mutato in «Rivista della Facoltà teologica del Triveneto». Il distacco dal progetto originario appare ora totale, e di fatto i lettori sono indotti a considerare la rivista come espressione dell’attività di ricerca (gli “studi” con la s minuscola) della Facoltà teologica del Triveneto. Un esito inevitabile, si dirà, e pienamente giustificato dalla realtà ricca e complessa che caratterizza oggi una Facoltà teologica, che semmai deve interagire in primo luogo con le Facoltà consorelle e non con le Università statali. Tutto vero, non c’è dubbio, e lungi da me l’intenzione di fare il guastafeste… Mi permetto tuttavia di far presente che nell’ambito filosofico-teologico la tentazione dell’autoreferenzialità è sempre dietro l’angolo, sia nelle Università statali sia in quelle ecclesiastiche, e che nel nostro Paese è ancora diffusa la convinzione che la teologia sia estranea a un ‘moderno’ ordinamento degli studi, a meno che non funga da sostegno a una posizione politica progressista. Da questo punto di vista il progetto elaborato tanti anni fa da Stefanini e dagli altri fondatori di «Studia Patavina» meriterebbe d’essere ripreso in considerazione e adattato ai nuovi tempi. È con questo sommesso auspicio che porgiamo al nostro don Stefano l’augurio più vivo di buon lavoro: Ad maiora!
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