STEFANINI e SEVERINO
( note sparse di Renato Pagotto)
Nel panorama dei filosofi italiani, Luigi Stefanini a suo tempo ed Emanuele Severino più recentemente, hanno lasciato una indimenticabile impronta. Non si sono incontrati in vita., per ragioni anagrafiche. Quando Stefanini venne a mancare, Severino avviava la serie di pubblicazioni e di interventi pubblici che lo resero celebre. Di Stefanini purtroppo rimane registrato, presso la RAI, solo un frammento di discorso, ma è noto come per ascoltarlo si accalcavano, nella sua aula universitaria, studenti di altre facoltà.
Egli era in contatto con tutti i filosofi del suo tempo. In convegni, per via epistolare o nelle pubblicazioni, da Gentile a Blondel, da Croce a Jaspers e molti altri grandi nomi rientrano nelle analisi stefaniniane. Significativo che un Heidegger sia stato fatto conoscere da lui in Italia, probabilmente per primo. Perciò un confronto diretto con Severino non sarebbe mancato. Ora il confronto può esserci utilizzando i loro scritti da parte di esperti. Qui ci si può limitare a degli spunti.
Entrambi hanno analoga familiarità con la storia del pensiero occidentale ed entrami dissentono da buddhismo e forme di filosofie orientaleggiante. In particolare, per l’Italia, li accomuna il rapporto problematico, con Bontadini e, da posizioni diverse, il superamento dell’attualismo gentiliano. Per altro aspetto sono avvicinabili per il loro porsi pressoché solitario tra i filosofi contemporanei.
Se vale il detto di Whitehead che tutta la filosofia occidentale non è che un commento a Platone, e Stefanini ne fu eccellente interprete (cosi H. Gadamer, all’epoca del dibattito di Tubinga sulle ‘dottrine non scritte’), Severino ne fa piazza pulita. Occorre tornare a Parmenide. Sulla scia della trasvalutazione di tutti i valori con Nietzsche e del radicale oltrepassamento della metafisica occidentale con Heidegger egli trova via spianata al suo impianto speculativo inattaccabile. Dall’interno, perché egli stesso si è preso cura di evitare ogni formulazione che desse adito a possibili obiezioni, dall’esterno perché implicherebbe un criterio estraneo al suo sistema di pensiero.
Egli, maestro universalmente riconosciuto di logica con la L maiuscola, asserisce che verità è evidenza della ragione. Necessaria e sufficiente a cogliere l’identità assoluta dell’essere, fondamento di tutto. Il resto: cambiamento, progresso, tecnica, storia, in una parola il divenire, è apparenza. Cui prestar fede è follia. Come ogni forma di fede, è ignoranza della verità.
Una volta in possesso di schemi logici totalizzanti sul mondo e sulla vita, è un gioco farne la applicazione categoriale ai vari aspetti della realtà vissuta. Non vissuta nella incertezza e nella oscurità di ogni vicenda umana ma alla luce inappellabile della logica che regge e risponde in tutta autonomia a qualsiasi domanda o incertezza che si configuri nel corso dei processi storici e politici. Infatti, Severino non può partire dalla storia per conoscerla e giudicarla. La precede e la isola in un contesto categoriale che ripropone il presupposto indiscutibile.
Da tale concezione della realtà, della vita e della storia, con la sua diversità e tensione al superamento del dubbio, nella inquietudine della continua ricerca, si differenzia Stefanini. Attingendo oltre che da Platone, da Agostino con il suo “divenni problema a me stesso” e dalla migliore tradizione cristiana, avvia il suo sistema filosofico come equilibrio tra istanza di pura razionalità e di sapiente accoglimento del sentire. Ossia, dà vita e sistemazione al binomio mente e cuore (Pensiero e Azione; Mens cordis e altre sue opere richiamano quel binomio).
Egli diffida di una maniera soltanto logica, nel senso di riduzione a necessità deduttiva, del discorso intorno alla verità. Propugna un modello logico, né solo deduttivo aprioristico, né solo induttivo sperimentale, che chiama eduttivo. Fa leva sul dato psicologico dell’autocoscienza personale come punto di partenza di una sana filosofia. Come consapevolezza dei problemi esistenziali della vita umana in tutta la sua globalità. Dalla storia alla fede, dalla speculazione pura alla scienza e all’arte, dalla storiografia alla tradizione pedagogica, tutte dimensioni dell’essere della persona nella sua singolarità e unicità. Così la persona è il problema metafisico per eccellenza. Problema, appunto, e non sistema teoretico autorelazionantesi.
Lì dove Stefanini fa della persona l’essere interrogante, Severino esibisce la risposta dell’essere impersonale, immutabile, il tutto eterno. Ma scrive Stefanini : “Ritenere di aver toccato il fondo dell’essere con un concetto o con un ritmo di concetti, nei quali non resti più nulla da chiarire, è l’essenza dell’idolatria filosofica” (Personalismo sociale, p. 36). Inoltre:: “La verità, che non si lascia persuadere, ha il volto della necessità, e il volto della necessità spira indifferenza. La verità è il muro di pietra contro il quale si abbatte l’anima degli eroi di Dostoievskij. La «mentalità euclidea», armata dei principi indiscutibili – la parte è più piccola del tutto; due grandezze uguali a una terza sono uguali fra di loro; ciò che ha principio deve avere una fine – strazia l’uomo e lo incenerisce” (Irrazionalismo e persona, p.145). Ed anche: “C’è abbastanza varietà nel mondo del pensiero e nel pensiero del mondo, perché sia necessario animare la scena soltanto ricorrendo ai guizzi sanguigni della negazione e del nulla. Il pensiero vive nel richiamo che il diverso rivolge al diverso per entrare con lui nell’armonia del tutto e trovarvi una ragione sufficiente che non sia data dalla riduzione deduttiva del diverso nello schema angusto dell’identità” (La mia prospettiva filosofica, Liviana, pp. 221-222).
Alcuni temi: ontologia, gnoseologia, psicologia, pedagogia, linguaggio.
ONTOLOGIA. Sul piano ontologico, è soprattutto il senso della persona a differenziarli. L’astrattezza della struttura originaria e necessaria dell’essere in Severino non lascia margini, ignora la realtà della persona. Può rientrare come apparenza, finzione, inconsistenza del divenire. Nulla vi aggiunge l’analisi della vita cosciente, che per Stefanini così viene riconosciuta: “Sono sostanzialmente diverso da tutti gli altri per il fatto che sono identico soltanto a me stesso: ed è appunto questo fatto, che mi differenzia da tutti, quello che mi rende simile a tutti, perché tutti sono anzitutto, ciascuno per proprio conto, un’identità con se stessi.” (La mia prospettiva filosofica, p. 217).
Le due posizioni, ognuna con propria coerenza interna, meritano attenzione. Con la differenza che in Severino non ha senso parlare di dialogo sull’essere. Sarebbe annettere credito alla diversità, propria del principio persona, che costituisce, per così dire, lo specifico dell’ontologia stefaniniana. In altre parole: la vita dei sentimenti e dei desideri, rientra essenzialmente e non surrettiziamente, nello statuto ontologico della persona.
GNOSEOLOGIA. Siamo in presenza di due concetti di verità e di procedura per arrivarci. In Stefanini il senso della verità risiede nella componibile diversità. È.ricerca incessante della scèpsi, inquietudine del domandare, in dialogo con l’altro da sé, fiducia nella verità possibile. Verità che, in Severino, è sinonimo di certezza acquisita. Per questo, con la pregiudiziale dell’incontraddittoria identità, quale unica verità, lo si può chiosare, non confutare.
Differenza chiave è nel concetto di necessità. Necessità in Stefanini significa coerenza di pensiero incontraddittorio ma non escludente la dinamica causale tra i fenomeni dell’esperienza fisica e psicologica, letti analogicamente. Vale a dire, rapportati alla vita della coscienza in cui necessità e possibilità si rapportano senza escludersi, cioè, logica del pensiero e logica della prassi, nella diversità che le contraddistingue, possono e devono convivere. È l’imperativo esistenziale per dare senso alla vita.
In Severino, la necessità, considerata come struttura e non come principio, è identità assoluta dell’essere, tutta e solo pensiero, verità unica e incontrovertibile, cui nulla è possibile rapportare. Prassi e ambito dei cosiddetti valori, appartengono ai discorsi che divengono, cambiano, ossia privi di verità.
Volendo ancora sintetizzare, avremmo un confronto tra metodi di procedura speculativa. In Stefanini con metodo improntato sul criterio dell’unità, in Severino su quello sull’identità. Unità e identità a contrassegno di narrazioni filosofiche decisamente diverse.
In Stefanini l’unità è includente, dinamica, in movimento come il tempo (“immagine mossa dell’eterno” secondo Platone), sospinta da somiglianze. Nell’esperienza del proprio essere in vita, ove logica e analogia convergono nel cogliere l’essere della persona come un tutto unico, necessariamente rapportato, in quanto limitato, al Tutto assoluto. Scrive: “V’ha bensì la possibilità di fare quello che fa la logica, cioè di rendere la ragione spettacolo a sé medesima, enunciandone una struttura permanente, un procedimento costante e impersonale: e questo lavoro di riflessione della ragione ragionata può avere la sua utilità. Ma la logica è un sottoprodotto della filosofia e può riuscire fatale alla filosofia quando presuma usurpare il posto di questa e mettere la ragione ragionata al posto della ragione ragionante.” (La mia prospettiva filosofica in AA.VV., Liviana, pp. 210).
In Severino l’identità è escludente, statica, necessariamente autoreferenziale, incontrovertibile. Com’è l’idea dell’essere, per cui egli ci appare artefice di una suggestione logica. Con due volti, sfinge nel deserto di tutte le filosofie postplatoniche. Volto dell’identità incontrovertibile dell’essere, eternamente uguale a sé stesso, e volto apparentemente dialogante nel linguaggio che, in quanto sede del divenire, cioè apparire e scomparire dell’essere negli essenti, è negazione dell’essere.
Se vale paragonare la verità ad un monte, Stefanini si colloca ai piedi, su un sentiero da percorrere facendo tesoro di tutte le esperienze del passato per coglierne l’attendibilità, Severino si pone sulla vetta da cui lo sguardo si estende su tutto senza barriere.
Ci avventurassimo in un confronto tra Socrate e i nostri due autori, potrebbe emergere una certa somiglianza con Stefanini, per la insostituibilità data al dialogo. Con Severino sembrerebbe rilevabile un doppio contrasto. Socrate asseriva di sapere di non sapere, e di aver fiducia nella verità. Severino da un lato sembra dirci: so di sapere perché penso; quanto alla fiducia, essa pertiene all’ambito della fede, non della verità.
PSICOLOGIA. Relazione, intenzionalità, valore ed altri termini sono tipici della psicologia e l’atteggiamento psicologico si riflette anche nell’attitudine ermeneutica. Al riguardo, Stefanini potrebbe dire di Severino quanto diceva a Bontadini: la tua impostazione filosofica non è errata, è incompleta. Sembra un assurdo stante l’apoditticità del fondamento logico severiniano. Eppure delle ragioni confermano il giudizio di Stefanini. Ragione è sì ricorso all’evidenza, ma è evidenza condizionata dallo sguardo di chi vede. Prima che logica, è psicologica. Il senso del domandare è per Stefanini l’evidenza prima: coscienza interrogante la radice dell’esserci nell’esistenza (sappiamo come simile affermazione trovi mille configurazioni nella sterminata letteratura sulla psicologia). L’indagine sul nostro essere, come indagine priva di evidenze, è il primo atto di responsabilità all’aprirsi della nostra mente sul nostro essere al mondo. Nel vuoto di conoscenze in cui ci si trova con tale domanda, si insinua la paura di non disporre di risposte certe e sicure. Il nostro essere non trova spiegazioni sufficienti da nessuna parte. È nella situazione del viandante che si ritrova “in una selva oscura” e non dispone più della “diritta via”. Cioè della via sicura che gli è servita sino a quel momento ed era la parola degli altri. La verità dell’autorità.
All’autenticità psicologica tutta la filosofia della modernità ci obbliga. Il che comporta l’essere filosofo per ‘vocazione’ di ciascun uomo. La psicologia cui si richiama Stefanini è nell’alveo della filosofia che da Cartesio in poi, con Husserl in particolare, considera il pensiero come realtà della coscienza. Coscienza con le sue dinamiche di autenticità e inganno, realismo e suggestione. Ma sempre, come punto fermo, coscienza del sé, dell’intenzionalità che la caratterizza. Per questo dichiara il carattere psicologico del primo capitolo del suo sistema filosofico, improntato secondo il principio persona.
Severino ignora sentimento e volontà come elementi del processo conoscitivo. Li usa, come per assurdo, nella sua impostazione dicotomica, nel rilevare la minaccia nichilista incombente con cui l’occidente è alle prese causa la dimenticanza del senso dell’essere, dell’eterno, dell’immutabile. Dimenticanza come sostituzione della verità con gli scopi della prassi tecnocratica, quale assoluto cui prestar fede.
In ciò la distanza tra i due autori è palese e mascherata. La verità non è disgiunta dalla convinzione (legame-con) che, per Stefanini costituisce il primo elemento di un sistema di pensiero. Per Severino sarebbe una specie di fede nella verità. Una forma di fiducia a rafforzamento della verità. Quindi una non verità.
La distinzione tra istinto e libera volontà costituisce problema cardine nella visione antropologica di Stefanini. Lo è come il concetto di relazione, che si fa misura della partecipazione (di volontà e libertà) nel rapporto sociale. Con la pratica del dialogo che implica diversità.
Per Severino tutto ciò non è ambito del puro pensiero logico. Severino finge la verità mediante la dimostrazione logica dell’autorità dell’asserzione originaria, inattaccabile, incontrovertibile, sull’Essere che si dà nell’evidenza assoluta della sua presenza, antecedente ogni altra presenza e ogni tipo di domanda. Essere che è già risposta prima che essere domandato.
Per Stefanini la casa esistenziale in cui abita la persona, conosce l’angoscia ma la interpreta come inquietudine che induce alla ricerca, attraversando l’incertezza, con fiducia socratica del pistèuo alethè èinai (ho fiducia che sia vero). Ossia verità relativa e non assoluta, segnata da apporto di razionalità e sentimento, nell’unità e unicità della persona nel suo essere sé stessa. È tutto il discorso e la responsabilità della corrispondenza tra il suo essere singolarità, relazione, limite necessariamente significativo dell’eterno infinito. Il che implica la problematica della dinamica del desiderio, insito nel profondo e legato alla relazione con l’altro.
È un’antropologia che risente dell’umanesimo onnicomprensivo rinascimentale e attraversa, integrandoli, i vari modelli speculativi della modernità, con il sapore sapienziale del gusto per la verità in tutte le sue svariate forme. Dall’inquietudine della domanda alla tranquillità metafisica del cercare con fiducia.
La fiducia in Severino non rientra nel pregiudiziale assenso all’unica e incontrovertibile verità dell’essere, sempre identico a sé stesso. Anzi, è sinonimo di fede. Da accantonare, inclusa la ricerca scientifica, essa stessa modellata su paradigmi accettati per fede.
Il tempio della logica, in cui abita la verità assoluta, esente da incertezza perché fondata sulla necessità, per Severino, non conosce commistioni di tipo psicologico.
PEDAGOGIA. Filosofia è un messaggio di vita, una convinzione a guida della vita pratica di una persona. Pare secondario esibire procedimenti incontrovertibili quando si sa che normalmente la vita é un “mantenersi in vita tra contraddizioni” nel quadro di una coscienza che soppesa gli opposti compresenti in ogni situazione.
Certamente la sistemazione teoretica di Severino è un potente richiamo alla inutilità e sterilità della prassi tecnocratica assolutizzata di cui l’occidente è espressione evidente. Ma quanto a fornire un criterio di valori per la costruzione di un’etica, Severino rimane un enigma. Nell’impostazione dicotomica essere-niente, eternità-temporalità non si dà mediazione. La sua sembra una rinuncia a priori di qualsiasi tentativo di etica o di pedagogia antropologica al di fuori della denuncia della pazzia in cui la cultura occidentale è impigliata. Né speranza, né fedi di vario tipo possono offrire alternative all’unica verità accessibile al pensiero: l’identità immutabile dell’essere.
In tale impostazione a senso univoco non c’è spazio per il dialogo, che è relazione con l’altro. Sarebbe finzione di verità, contraffatta come ricerca, un dare fiducia alla diversità. La verità non ha bisogno di dialogo essendo bastante a sé stessa. Perciò coerentemente si esime dal proporre un’etica su cui basare una pedagogia. A differenza di un Gentile, che pur ritenendo la verità come puro pensiero, così del resto Spinoza, non manca di concrete proposte etico-politiche.
In Stefanini la pedagogia, ancor prima della politica, declina i modi di comportamento e la sensibilità specificamente umana, dalla paidèia platonica al maestro interiore di Agostino, alle contemporanee scuole pedagogiche del ‘900, per una sua teorizzazione in chiave personalista. La pedagogia, come realizzazione di un’antropologia nell’orizzonte di una psicologia testé designata, è l’anima paidetica di tutta la sua produzione.
Le sedi per l’applicazione di una pedagogia conforme al senso psicologico della persona sono molteplici. Naturalmente in primis la famiglia. La affiancano il ruolo insostituibile della scuola e, nella scuola, la
pratica del dialogo. Caratteristica questa che andrebbe approfondita perché legata alla dimensione della relazione. Non riguarda solo il rapporto docente e scolari ma anche la reciprocità di scambio conoscitivo tra alunni. La collaborazione tra i più e i meno dotati andrebbe sviluppata onde mettere al bando sterili rivalità e tendenza a primeggiare. Il giudizio sul lavoro di un gruppo merita pari attenzione di quello sui singoli. La persona, infatti, realizza la sua singolare unicità socialmente, non isolatamente.
Altra nota significativa nel confronto riguarda il posto della fede nei due sistemi di pensiero. Per questo argomento entra in questione la dimensione gnoseologica: il tipo di conoscenza adottato come criterio di verità. Ma il problema della fede può rientrare in un progetto pedagogico. Al riguardo la distanza tra i due pensatori è incolmabile. In Severino la concezione dell’eterno scarta a priori l’idea di un divino storicamente personificato secondo il senso cristiano dell’incarnazione del Verbo. Al più sarebbe una specie di docetismo, un’apparenza scambiata per realtà. La certezza di verità necessaria e sufficiente non ammette la fede: quest’ultima è assimilabile a mito. Rientra nelle metamorfosi del divenire, all’insegna del nulla. Non è disprezzo per la fede, è noncuranza. Come azzera il senso del fare e nega al sentire qualsiasi interferenza con la pura razionalità, così Severino si rapporta alle fedi. Tra queste è dominante la volontà tecnocratica della cultura occidentale: l’illusione di porsi degli scopi mentre è la stessa tecnica a farsi scopo, sostituendosi come verità a tutti i livelli, scientifici, produttivi, politici, religiosi, ecc. Cogliendone le contraddizioni emerge la tesi dell’essere come unica verità immutabile. Sintetizzabile nelle modalità segnalate da F. Chiereghin: “Necessitá, universalitá, incondizionatezza, aprioritá, incontrovertibilitá sono solo alcuni dei molti termini con cui é stata connotata la presenza della veritá e del suo tratto caratteristico essenziale: un’unitá non equivoca” (“Verifiche” 1987, n.3, p.292).
Per Stefanini il rapporto tra ragione e fede implica il concetto di pienezza di verità. La ragione è necessaria ma non sufficiente a tale concetto. Per questo vale confrontarsi nell’ascolto dell’eco di una apertura della razionalità ad un altro da sé, cui la vita deve relazionarsi nella sua ricerca di senso. Senso che, direbbe Michelangelo nelle sue rime, l’anima persegue “in questa spoglia ancor fragile stanza” come suo “fiero destino”.
LINGUAGGIO. Altro aspetto a caratterizzare i due autori è l’uso del linguaggio.
C’è un feticismo linguistico, in tanta teologia e in tanta filosofia. Ossia si incentra tutto un sistema di riferimenti concettuali sulla base della scelta di una parola che fa da fondamento a tutte le altre: Dio in teologia, Essere in filosofia.
Stefanini si avvale del linguaggio interpretando il significato delle parole per quello che dicono e non dicono della verità. Ma alla verità si arriva non in un fondamentalismo logico, che spiazza qualsiasi discorso improntato alla fede, ma vagliando quanto la ragione può accettare, oltre il limite entro cui è confinata ma non rinchiusa.
Ogni sistema dottrinale coerente dipende dalla scelta della parola fondamentale. Nelle tradizionali filosofie dell’essere, é “essere” la parola che fa da ultimo “dioti” della problematica aperta sull’ “oti”. Ma poteva essere anche un’altra parola, come ad esempio “relazione”, dal momento che è sempre una relazione ciò che si cerca per ultimo, anche per le cose che sono, le cose nel loro essere. Potrebbe essere anche la parola “volontá”, la quale tuttavia farebbe inorridire un metafisico dell’essere per il capovolgimento nell’ordine degli esseri che, secondo la sua metafisica, prima devono essere per poter volere, anche se si tratta di un ‘prima’ soltanto logico, ma non troppo.
In Severino il linguaggio è necessariamente univoco. Gli è confacente non per dimostrare la tesi sull’essere, ma per convalidarla per assurdo. Una specie di enigma: il linguaggio, espressione del mutevole e sede della contraddizione, in quanto divenire, sinonimo del nulla, condurrebbe alla verità. O piuttosto a finzione di verità?
In ciò l’esercizio accademico di Severino è di rara perizia linguistica. Ma in quanto le parole dicono e non dicono la verità, due cose sono evidenti: la componente psicologica dell’uso funzionale del linguaggio e il ricorso alla onnipresente controvertibilità di qualsiasi formulazione di tesi diverse. Per cui l’identità unica e incontrovertibile della verità dell’essere non può essere smentita da qualsiasi espressione di diversità. L’identità di essere e pensiero comporta un linguaggio univoco, incontrovertibile.
Con Stefanini si è nella plurisemanticità del linguaggio, inclusiva del diverso. Egli fa del linguaggio un capitolo essenziale del suo sistema, ammettendo come percorso alla verità, platonicamente, sia la funzione logica che quella analogica (v. Imaginismo …). La coerenza tra le due funzioni è di natura intuitiva, non solo discorsiva. La certezza della verità risponde alla domanda dell’essere che la persona fa a sé stessa come primo problema del suo essere finito. Nel linguaggio la persona, tutta soggetto, si oggettiva. Si realizza come relazione dialogica, nell’espressione di sé, il bello innanzitutto (l’estetica è asse portante delle analisi stefaniniane (v. volume collettaneo, La dialettica dell’immagine nell’ imaginismo’ di L. Stefanini, ed. Marietti, 1991). Il senso del bello, come sapore della libertà, non è identificabile con la certezza insita nella logica della necessità. La include e la sorpassa.
CONCLUSIONE. A monte dei due sistemi di pensiero c’è una scelta. L’immediatamente noto per Severino è l’essere, per Stefanini è la libera adesione alla possibilità di senso del mio essere al mondo.
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Come Postscriptum riporto: A) quanto scrissi nel 1995 in morte di Levinas. B) un brano su libertà e corpo in E. Levinas di Gianni Bianchi
A)
“Dei quattro quotidiani che ho potuto leggere mercoledì 27 dicembre, in occasione della scomparsa di E. Levinas, due mi sono parsi paradigmatici. Con opposte interpretazioni, E. Severino nel “Corriere della sera” e B. Forte in “Avvenire”, hanno voluto, l’uno, ancora una volta differenziarsene, l’altro ispirarvisi. Ovviamente ognuno con ragioni ben argomentate.
Dove sta il problema? A mio avviso soprattutto negli atteggiamenti mentali. Non di poco conto, mi pare, data la circostanza.
Uno argomenta senza nulla attendersi dalla ricerca altrui, per ribadirne l’inconsistenza, in quanto basata sulla falsa premessa che la categoria del Desiderio possa avere valenza logica. L’altro privilegia la modalità della testimonianza rispetto alla tematizzazione del pensiero, necessariamente legato alla limitatezza esistenziale dell’uomo.
Come dire, nel primo caso, l’uomo è innanzitutto conoscenza logica, e quindi razionalità speculativa; nel secondo caso, l’uomo è innanzitutto dimensione desiderante cui è solo annessa, per quanto necessariamente, la razionalità logica. In quell’innanzitutto si giocano le differenze tra le due interpretazioni.
Gli atteggiamenti mentali, dicevo. Tali atteggiamenti non si riducono alle diverse modalità delle premesse, che sottendono diversità di impostazioni filosofiche. Riguardano il senso stesso della filosofia che, a mio avviso, nel primo caso, mimetizza, magistralmente, la vacuità epistemico-formale del pensiero di Severino; nel secondo caso, non consente l’approdo alle false sicurezze delle certezze logiche fine a se stesse, ma rende manifesta la natura essenzialmente incerta della ragione umana.
Se mi chiedo quanto sia forte il pensiero di Severino e quanto debole quello di Levinas (quest’ultimo non a caso rivisitato favorevolmente da Vattimo sulla “Stampa” di quel giorno ) mi trovo impigliato in facili polemiche al riguardo. Noto però che c’è modo e modo di far apparire forte o debole un pensiero.
Severino ripropone, nel suo articolo, il punto debole del discorso, solo “ricco e suggestivo”, di Levinas: “l’appartenenza del suo pensiero alla prospettiva neoplatonica” e il condizionamento della fede (“egli ebreo, è soprattutto un credente e un teologo”). Per cui introdurre la categoria del desiderio significa già, in poche parole, abbandono del terreno filosofico. Quasi che le modalità del rigore logico, compresa la sua, di Severino, che tematizza l’Essere, non implichino connessioni con strutture del desiderio (ad esempio, che le cose – le parole – siano come noi vogliamo siano intese – siano significanti -).
Misconoscendo Severino (consapevolmente o inconsapevolmente, il che è grave in entrambi i casi per un filosofo) che una opzione sta a monte di ogni sistema argomentativo, non si salva dalla commedia (se non dal contrabbando) di una filosofia che dice la totalità indipendentemente, e rinnegando con ciò, la necessaria alterità che si instaura mediante e nella forma autentica del dialogo (presenza dell’Altro). In tal modo è resa insignificante (psicologicamente e quindi logicamente) qualsiasi apertura all’Altro, sia esso Dio Trascendente o il Volto dello sconosciuto che incontriamo (non siamo tutti un po’ sconosciuti gli uni agli altri?). Non è un caso che nella sua filosofia ci sia lo spazio solo per le caselle di una scacchiera in cui è necessario si concluda il gioco di parole devitalizzate (prive di allusività alla diversità che rimetterebbe in circolo il…Desiderio e contaminerebbe il Gusto rassicurante dell’autoidentificazione nella pura pratica della logica dell’Identità). Pericoloso, per Severino, è discostarsi dalla filosofia (cioè dalla sua) per dare accoglienza a contenuti estranei, quelli, ad esempio, della Fede. Sarebbe abdicare all’unica dimensione attendibile del Pensiero: quella della certezza logica.
L’interpretazione di Forte si muove su tutt’altro versante. Vuole essere anch’essa supportata di razionalità; ma con esiti opposti. Egli si chiede, con Levinas: come dire l'”altrimenti che essere” nel linguaggio dell’essere. Facendo leva sulla categoria etica della responsabilità del soggetto aperto a tutto, che soffre per tutti ed è responsabile di tutto. Non già come notaio logico della totalità bensì nel rapporto con l’altro in cui “la totalità si spezza” e il volto dell’altro conduce ad un esodo da sè senza ritorno (senza ricaduta nell’Identità). In tale rapporto, l’esperienza del pensiero chiama in causa la testimonianza, più che la tematizzazione. E’ il volto d’altri, non la logica dell’Identità, a produrre una responsabilità. In tal modo la riflessione metafisica è assunta e superata dalla riflessione etica. Così “si infrange, scrive Forte, l’imperialismo occidentale della soggettività” e “questo pensiero ebraico della rivelazione, che viene da altrove rispetto al mondo greco…viene a sbloccare l’impossibilità costituita dal dover dire la differenza nel linguaggio della identificazione”. In tal modo “Levinas feconda il pensiero greco dell’Occidente con una sfida nuova”. Chiamando l’io alla responsabilità lo libera “dalla prigionia del sè”. Ecco perché in Levinas solo nel dialogo il pensiero è in grado di procedere in una riflessione che non si esaurisce in se stessa.
Se pensare non è dialogare (nel dialogo si oltrepassa l’identificazione con il proprio modo di pensare), è solo recita del già detto. In questa direzione, Levinas può esserci maestro di pensiero.” R.P.
B)
G. BIANCHI : “Le nozioni di corporeità e storia lavorano ancora in controluce nelle ricerche levinassiane e mi pare gettino alcune prospettive interessanti sul tema della relazione tra neuroscienze e libertà.
Infatti il punto non è tanto se esistano e quale estensione abbiano le cosiddette neuroscienze, quanto chi è l’uomo, anche quello che vive dei condizionamenti della sua neurobiologia e della struttura della sua psiche.
Levinas su questo tema non si ritrae: nella sua fenomenologia dell’alterità, così come la percorre nella prima parte di Totalità e infinito, egli afferma che l’io è il principio di identificazione, è l’accadere di sé come luogo di unità dei diversi livelli della sua esperienza, anche biologica e storica . Tale identificazione non è tanto il frutto della visione consapevole circa sé che ogni essere umano è in grado di darsi, quanto l’evidenza di un modo, di una certa posizione dell’essere uomo nel mondo . L’uomo infatti esiste nel mondo non solo come un ente tra gli enti, ma come un soggetto che consiste e può, cioè come un soggetto che non solo modifica il mondo e ne è modificato, ma che accade nel mondo sentendolo in qualche modo come parte di sé e che, in questa identificazione, diventa sé .
L’accadere dell’umano, per Levinas, è un accadere storico, biologico, all’interno di una serie di vincoli anche deterministici; tuttavia ciò che avviene non è la pura somma di questi aspetti . L’uomo nella sua attività di immedesimazione più o meno efficace è manifestamente dentro l’esperienza di quello che il nostro autore chiama “godimento”, non sempre e non solo nel senso del “provare piacere”, quanto dell’essere soggettività, dell’essere se stessi nel perseguire la propria identità con ciò che è altro rispetto al soggetto”.
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