UN MONDO ASSETATO D’ACQUA, ASSETATO DI CULTURA
1. Sommaria psicoanalisi dell’acqua, simboli e miti di una lotta secolare
Affrontare il tema delle emozioni, in connessione con quello dell’acqua, comporta un riferimento al valore simbolico dell’acqua, dimensione che, da sempre, evoca la nascita, la purificazione, la morte e la rinascita .
Seguendo il metodo di Bachelard, non si apre il varco a considerazioni di tipo irrazionalista; al contrario, praticando un’epistemologia che possiede molti tratti definibili “razionalisti”, siamo in grado di connettere la vasta materia che ci forniscono i miti con il lavorio dell’immaginazione, un’immaginazione all’opera, che sembra “lavorare” incessantemente, creando e distruggendo mondi esistenti nella fantasia, ma così influenti da affacciarsi anche nel concretissimo delle vite umane.
Siano le acque chiare da cui, secondo il mito, nacque Venere, non lungi da Cipro, siano le acque primaverili, che schiudono l’eterna, e ciclica, fioritura del mondo: in ogni mito, l’acqua ci parla assiduamente della vita e della morte, e del loro meraviglioso intreccio.
Narciso contempla, con sguardo amoroso, la sua stessa immagine, e vi sprofonda, incapace di rapportarsi a un’alterità resistente; ma non meno eloquente è il mito di Caronte, il traghettatore delle anime dei morti, collocato sullo spartiacque fra i due regni, il cui confine presidia e custodisce.
Si tratti di acque profonde, di acque dormienti o di acque morte, di acque che corrono o sembrano condensarsi in una cupa pesantezza, come in certi racconti di Poe: in ognuna di queste fattispecie, sognate ed espresse in poesia, domina l’immagine dell’acqua, figura della maternità e, nella sua sfuggente fluidità, di una più vasta dimensione del femminile.
Per Bachelard, accanto al mito di Caronte, s’individua quello di Ofelia, condotta dalle acque verso il suo enigmatico destino, come illustrato dai pittori di varie scuole, in particolare dai Preraffaeliti .
L’emergere dell’uomo dalle acque, lo sforzo di oltrepassarle, metaforizzano la lotta senza tregua per la libertà e la maturità, e ciò viene evocato nelle più antiche saghe dell’umanità; l’acqua originaria non è solo la fonte della vita, ma anche la sorgente della purificazione, e si configura così un’incipiente “morale dell’acqua” .
Ma l’acqua non è solo questo, non è solo opportunità e condizione per la purificazione; il dolce e indispensabile lavacro, le tenere acque lustrali lasciano luogo, bruscamente, alla violenza dell’acqua scatenata, al rombo della tempesta, che tutto sembra sconvolgere e travolgere; si pensi all’acqua cupa del melvilliano Moby Dick, che fa da sfondo alla drammatica lotta fra il capitano Achab e il pesce mostruoso. Solo a tratti si apre il cielo, e nella volta stellata brillano gli astri, come tanti fuochi accesi…
Più si procede a ritroso, più affiora un’incoercibile dimensione simbolica, che connette tra loro i vari piani della realtà, rendendoli aperti e comunicanti; tale dimensione si correla alla maturante enucleazione dei significati, rivolti, talora, verso un trascendere la condizione umana, intravedendosi, sullo sfondo, il richiamo del sacro.
Quando evochiamo l’accesso alla dimensione simbolica, collochiamo al centro la cultura, non nel senso, ovviamente, della cultura come pascolo riservato degli intellettuali o dei ricercatori, ma come ethos complessivo di un popolo, come quella tradizione che stratifica, un poco alla volta, le identità più profonde, che tendono a germinare inconsapevolmente, ma con una forza di pressione inesorabile.
Se riandiamo alla Preistoria, scopriamo agevolmente che l’Homo sapiens-sapiens non è molto diverso dai nostri immediati progenitori, e anche da noi, manifestando ed evidenziando caratteristiche che ci sono profondamente familiari, come le dinamiche emozionali più sconvolgenti, come l’attitudine a lottare contro le potenze naturali, per irreggimentarle e configurarle entro un sistema di sicurezza. Anche quando compie le operazioni più elementari della sua vita, l’Homo sapiens-sapiens, nel suo cammino evolutivo, attua dei rinvii, ne sia più o meno consapevole.
Paradossalmente, anche quando mangia, l’uomo non compie un’operazione meccanica, ma i suoi gusti, le sue scelte (il crudo o il cotto, ad esempio) mostrano come si nutra, in verità, di cultura, producendo cultura, e manifestando, in ogni istante della sua esistenza, l’adesione a una cultura che lo sostiene e, motivandolo, propriamente lo fa essere .
2. Le lacrime e la vita
I miti più antichi, le storie aurorali dell’umanità rivelano un legame profondo fra l’uomo e l’acqua, in un’ambivalenza drammatica; se l’acqua rinvia alla sorgente, e dunque all’inizio della vita, l’acqua, simultaneamente, riaccende negli uomini la drammatica consapevolezza di essere mortali, inducendo immagini di precarietà e caducità, e rammentando dunque, in un baleno, quei limiti costitutivi che sembrano tracciare un orizzonte insuperabile attorno alla condizione umana.
Ricordo solo un passaggio del mito sumero di Gilgamesh, un eroe metà uomo e metà divino, come Achille, ma alla fine trascinato nella morte dalla componente umana della sua duplice natura.
Ora Gilgamesh, dopo un’incessante ricerca, scopre, secondo il racconto, uno dei più antichi dell’umanità, una magica pianta, che può forse strapparlo definitivamente da ogni destino di mortalità. Dopo aver attraversato le insidiose acque e aver raggiunto la riva, Gilgamesh, con un suo compagno, stanno ritornando alla loro dimora.
“Videro una fresca sorgente, e l’eroe comandò di fermarsi lì, per potersi bagnare nelle acque di quella sorgente. Così si tolse di dosso le vesti, posò la pianta in terra e andò a bagnarsi nella fresca sorgente. Ma appena ebbe voltato la schiena, ecco, un serpente uscì dalle acque e, odorato il profumo della pianta, la rapì. E non appena l’ebbe assaggiata, subito mutò la pelle e riacquistò la gioventù”.
Così continua il drammatico racconto: “Quando Gilgamesh vide che la preziosa pianta era perduta per sempre, si mise a sedere e pianse. Ma dopo poco si alzò e, rassegnato infine al destino di tutta l’umanità, fece ritorno alla città, al paese da dove era venuto” .
Che terribile compianto nelle lacrime amare di un eroe che, improvvisamente, si riscopre uomo, e dunque mortale; e quanta dignità, e composta fierezza, nel finale ritorno di un eroe colpito, prototipo di tutti gli eroi vulnerabili, di tutti i guaritori feriti e richiamante, secondo alcuni esegeti, il patriarca biblico Noè, anche per l’avventura del Diluvio che, secondo gli antichi testi sumerici, travolgerà anche il povero, ma grande Gilgamesh.
3. Il controllo sulle acque, autentico perno di tutti i poteri
Come sirene ammaliatrici, come usignoli dal dolcissimo canto i miti parlano ancora, con voce suadente, a noi uomini della contemporaneità; per questo eterno ritorno dei miti, sembra in gran parte da revisionare la prospettiva weberiana che interpreta la nostra cultura nella chiave di un realizzato “disincanto del mondo” (Entzauberung ). E così molti studiosi, tra cui P. Berger, “leggono” l’attuale orizzonte di cultura, che ci definisce e circoscrive, come un “reincantamento del mondo”.
Ma passando alle questioni che meglio conosco, e uscendo dalla fascinosa prospettiva dei miti, mi sembra si debba collocare in primo piano la questione politica del controllo dell’acqua; in varie fasi della storia dell’umanità, chi ha avuto il monopolio o l’oligopolio di tale bene prezioso e influente, ha posseduto un potentissimo mezzo d’egemonia politica, potendo regolare, a suo piacimento, le problematiche vitali dell’agricoltura e delle vie di comunicazione: in breve, ciò che vi è di più essenziale nella vita di una società.
Karl Marx, in alcuni scritti decisivi fra cui Per la critica dell’economia politica, ha illustrato quello che chiama: il “modo di produzione asiatico”, un certo modo di produzione entro la scansione successiva che ha contrassegnato, in maniera specifica e determinata, non solo l’economia, ma anche le diverse fasi della cultura e della civiltà, dipendendo quest’ultime, organicamente, dalla sottostante struttura e organizzazione della produzione.
Fra le caratteristiche peculiari del “modo di produzione asiatico”, si può ricomprendere lo sforzo, tenacissimo e superpianificato, per imbrigliare la potenza delle acque, facendola servire a un progetto d’incivilimento; una tale intuizione diventa una generale chiave interpretativa per un autore non molto noto, ma di grande coerenza sistematica: Karl August Wittfogel (1896-1988).
Nell’opera fondamentale: Die orientalische Despotie, Wittfogel analizza le conseguenze della secolare lotta dell’uomo per dominare la dimensione acquatica, correlando il possesso dell’acqua con l’esercizio di un potere che può, in diversi casi, diventare un potere incontrollato: absolutus, cioè sciolto da ogni vincolo.
Il nòcciolo delle assai varie competenze di Wittfogel consiste in una conoscenza profonda della storia e della cultura cinese, attraversata da una relazione essenziale, spesso drammatica, con i grandi fiumi (il Fiume Giallo, il Fiume Azzurro…).
Attorno alla ricostruzione di questo rapporto con le acque, al fine di disciplinarle e di farne uno strumento per aiutare l’agricoltura e la vita, Wittfogel ha inserito, con un paziente lavoro di tessitura, lo studio delle conseguenze che ha avuto tale controllo, riservato a delle minoranze molto ristrette e consapevoli; in poche parole, il controllo dell’acqua e sull’acqua (canali navigabili, dighe…) ha significato, storicamente, il controllo puntiglioso su tutti gli aspetti dell’esistenza, fino a costruire una società con importanti elementi di tirannia e dispotismo .
Può esser utile un cenno alla tormentata vicenda biografico-politica di Wittfogel, prima ribelle ma tentato da una veemente adesione all’ortodossia comunista, poi “eretico” del marxismo teorico e del comunismo politico, pur nella memoria delle esperienze passate e nel tentativo d’incorporare svariati elementi e suggestioni delle teorie abbandonate (aderendo al marxismo teorico, aveva avuto intrinsechezza con un hegelo-marxista come K. Korsch e come militante comunista aveva goduto della confidenza di un leader come K. Radek).
Aggiungo che Wittfogel, abbandonata la militanza comunista che per lui era durata fino ai momenti conclusivi della Seconda guerra mondiale, si fece travolgere dal clima della “Guerra Fredda”, sposando un anticomunismo piuttosto esasperato, e lasciandosi invischiare nell’oscuro e drammatico suicidio di Herbert Norman: tutto ciò bastò a causargli una vera e propria damnatio memoriae, fino alla silenziosa cancellazione della sua opera, anche degli elementi più nuovi e stimolanti.
Wittfogel era partito, negli anni Venti del Novecento, dal tentativo di tracciare, pazientemente, una storia complessiva della civiltà borghese, con lo scopo di mostrare come essa si orientava, necessariamente, verso uno sbocco di tipo comunista (tale genere di analisi collimava con gli studi proposti dalla Scuola di Francoforte, con cui Wittfogel, in quegli anni, collaborò piuttosto strettamente).
Il passo decisivo viene compiuto all’inizio degli anni Trenta, con il tentativo di ricostruire l’economia e la società della Cina antica; in tali lavori, il saggista espone la sua teoria della “società idraulica”; in breve, la messa a regime e la distribuzione delle risorse idriche costituisce un nodo decisivo da secoli, anzi da millenni; chi possiede i dispositivi e gli accorgimenti per dividere tali essenziali risorse, pone le premesse di un’egemonia più o meno assoluta: dunque, la sfida che l’umanità avrebbe di fronte da millenni consisterebbe, soprattutto, nel mettere a regime le acque, e nel come metterle a regime, se solo con criteri tecnici, o anche con una superiore consapevolezza equitativa.
Nella ricostruzione dell’antica economia e società della Cina, brillano con un particolare rilievo le tecniche di irrigazione, nelle quali quella cultura sembra sopravanzare di molto i tentativi dell’Occidente, in analoghi campi; ma non si tratta solo della Cina. In opere successive, sviluppando delle investigazioni comparate, Wittfogel raduna, attorno al primo nucleo, ricostruzioni che riguardano gli antichi Egiziani (regolazione del Nilo), gli antichi Babilonesi (analoghi tentativi con l’Eufrate) e l’antica civiltà di Harappa (nel tentativo di canalizzare e controllare il fiume Indo).
I critici, anche quelli più rispettosi nei confronti di un lavoro di ricostruzione così ampio, non hanno mancato di notare che sembra funzionare, in Wittfogel, uno schema un po’ alla buona, così concepito: l’Occidente meno evoluto in quest’ambito, ma “buono”, perché fondato su dinamiche personaliste legate ai valori di autodeterminazione e responsabilità, e, dall’altra parte, l’Oriente, più evoluto sul piano delle tecniche, ma deformato, alterato in profondità dall’elefantiasi burocratica, resasi necessaria per l’imponente questione della lotta con l’acqua, allo scopo di controllarla ed usarla al meglio (ciò che riassume tutto: la categorizzazione del “dispotismo idraulico”) .
E tuttavia le critiche più sommarie non tengono conto che quello del “dispotismo idraulico” è un tipo ideale, coniato sulla scia della proposta metodologica formulata da Max Weber: un tipo ideale non deve coincidere con questo o quell’aspetto di ogni ricognizione analitica, costituendo piuttosto un paradigma completo, alla cui luce, semmai, misurare e investigare i profili che scaturiscono dall’esperienza, e da una conoscenza determinata.
Quel che Wittfogel, in definitiva, vuol farci intendere: le stesse esigenze del lavoro, quando le sue dimensioni si ingigantiscono, reclamano una centralizzazione e una verticalizzazione dei poteri, che convergerebbero sempre di più fino a unificarsi in un leader assoluto e in una burocrazia onnipotente, secondo lo schema di una burocrazia totalmente pervasiva e priva di contraltari influenti. In una tale prospettiva, ovviamente, la coercizione non incontra più remore, né barriere…
Se mi è permessa una valutazione critica su questo punto decisivo, direi che è caduto l’entusiastico convincimento di Wittfogel di aver trovato una spiegazione onnicomprensiva della genesi dei processi di concentrazione riferiti ai poteri; anche autori che trattano con un certo riguardo le tesi del “dispotismo idraulico”, come lo studioso dell’autorità Barrington Moore o come lo storico della Grecità Vidal Naquet, concludono, nelle loro critiche, che la prospettiva interpretativa in questione contiene non poche esasperazioni e forzature.
Può essere importante, comunque, sottolinearne la fecondità, avendo aperto nuove linee di ricerca, soprattutto con il discepolo L. Krader e con gli studi circa il dominio esercitato dalla dinastia degli Incas sul popolo Quechua, in Perù (una specie di protocomunismo a sfondo autoritario).
Infine, un qualche “ritorno” delle tesi di Wittfogel si è avuto in quella genuina galassia del pensiero libertario che va sotto il nome di “spirito del 1968”; in particolare, al suo pensiero si è ispirato uno dei principali leader del Movimento studentesco, R. Dutschke, prima che il colpo di pistola di un fanatico non ne interrompesse bruscamente l’interessante riflessione .
Un importante spunto riguarda il futuro di queste problematiche; se la sfida per il controllo dell’acqua e per la sua irreggimentazione ha avuto, nel passato, il rilievo che s’è detto, sembra che nel futuro la lotta per il controllo dell’ “oro blu” sarà sempre più nevralgica, per gli equilibri ambientali e politici del nostro pianeta.
Avanzando il deserto in molte parti del mondo, aumentando vertiginosamente la popolazione e diminuendo le terre poste a coltura, il potere, ad esempio, di deviare un fiume, di canalizzarlo e usarlo in un modo o nell’altro, potrà assumere il senso di decidere della morte e della vita d’intere popolazioni, in ogni caso modificando, in meglio o in peggio, la qualità della loro esistenza.
Passando dalle radici (archeologia) agli scopi da intravedere e perseguire (teleologia), nel quadro di una presa di coscienza comune e radicale, quel che emerge è che l’acqua, così preziosa da essere indispensabile, è uno di quei beni comuni a cui l’umanità non può rinunciare, dovendo il suo corpo a corpo con la natura non mirare più a gerarchizzare e a dividere, bensì ad unire, in un difficile tentativo solidale di “salvezza” intramondana comune .
4. Cenno finale, concentrandosi sulla “modernità riflessiva”
Se c’è una categoria che consente di collocarci nella situazione culturale del nostro tempo, tale categoria è forse, con la maggior pregnanza, quella di “modernità riflessiva”. Una modernità che non avanza più, dunque, come in preda a uno slancio frenetico e cieco, ma che sembra propensa ad apprendere la ponderazione, la prudenza di un’umanità capace di misurare i propri passi, ammaestrata anche dal timore, in modo da non introdurre, in un pianeta già fragile e ferito, delle dinamiche irreversibili.
Ri-flessività significa anche il guadagno di una nuova misura di consapevolezza, capace di elaborare e far tesoro di antichi e inediti timori; il nostro pianeta “scoppia”, piatto, caldo e affollato com’è; soprattutto, senza un “fuori” che consenta rinnovate frontiere e mete incantatrici.
Un grande contributo alla consapevolezza viene offerto dalla confluenza fra antropologia scientifica e antropologia filosofica; autori come Scheler, Landsberg, Heidegger, Gehlen, Plessner, Lorenz e Rivière hanno esplorato i movimenti originarî dell’essere umano nel mondo, tentando di comprendere la condizione umana a partire dall’idea dell’uomo come “animale carente”, come “essere mancante” .
Mancante di cosa? Mancante, per Gehlen, Scheler e Plessner, di un suo impianto ben definito nella natura, e dunque di un “adattamento” adeguato alle sfide proposte, ogni giorno, dal cosmo circostante all’uomo stesso (non si dimentichi che, secondo la teoria dell’evoluzione, non i più buoni, né i più forti sopravvivono, ma i più adatti).
Proprio da una condizione così sfavorevole dell’uomo nel mondo, nascerebbe, come risposta necessaria e incoercibile, la dimensione tecnica, che esplode, a partire dalla pietra scheggiata, percorrendo vertiginosamente la storia dell’umanità, fino all’utilizzo del silicio e alle più straordinarie conquiste tecnologiche della tarda modernità.
A tutto ciò fa pensare il lungo lavorio dell’uomo, sempre sul crinale fra le acque dei fiumi, le lagune e le terre.
Con l’Entlastung (rilassamento, sgravamento, ma anche esonero), l’uomo si libererebbe da una fase di immediatezza istintuale, che lo curva verso terra e ne immobilizza le energie; lo “sgravamento” emanciperebbe l’uomo dal vincolo troppo stretto rispetto agli stimoli immediati del suo ambiente, per lanciarlo in un’avventura progettuale di più grande respiro, dominata dalla tecnica, la seconda natura dell’uomo (oggi, senza introdurre separazioni, possiamo evocare una prospettiva “tecnoumana”).
Dunque, proprio l’intreccio fra le dimensioni della “carenza” e dell’ “eccedenza”, resa disponibile dallo “sgravamento”, aiuta a chiarire quell’autentico paradosso che è l’uomo: il più singolare progetto della natura, che sfocia in una lenta liberazione dai condizionanti legami con la natura stessa, potendo l’uomo decidere, unico fra gli animali, di plasmare il mondo in una certa direzione e, in tale processo, di plasmare anche la sua stessa soggettività .
Un esame critico, anche sommario, dei processi di ominizzazione e dei successivi processi di evoluzione delle culture umane, ci fa cogliere, come dato di fondo, il crescente distacco fra l’uomo e la natura, nel senso che la stessa lotta dell’uomo per migliorare e stabilizzare il suo ambiente coincide, sempre di più, con l’emergere della libertà umana.
Come già intuito da Bergson e Scheler, l’identità dell’uomo si manifesta, fin dai primordi, con la caratteristica di fondo della “fabbrilità” (l’uomo come Homo faber); il rischio immanente, in questo vorticoso cammino, è quello di perder la misura, aprendo la via a una “civiltà predatoria”, piuttosto che tesa a stabilizzare e a securizzare il mondo.
Il paradosso dell’uomo sembra consistere, perennemente, nella doppia direzione possibile del suo cammino: o estrinsecarsi nella direzione della spazialità, rischiando nell’ebbrezza del dominio di abbandonarsi al primato della forza, e anche della violenza, o rientrare in se stesso, e coltivare un “sapere di chiaroscuro”, cercando di colonizzare la temporalità.
Pur non celando quei segnali negativi che vengono dall’estrema unilateralità legata all’opzione per l’espansione nella spazialità, si potrebbe tentare di concepire le due vocazioni non come alternative, non come un bivio, ma come due strade da perseguire simultaneamente, secondo la “logica” non del aut-aut, ma dell’ et-et.
Su questi temi, ha avuto una risonanza globale il “messaggio” lanciato da papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ (2015): con la consueta, voluta semplicità dello stile, il Pontefice fa circolare importanti tematiche, dotate di forte carica profetica; si parla di “sorella acqua”, dell’acqua come fons vitae e infine dell’esistenza, a proposito del bene comune dell’acqua, di un “diritto universale”, anche se non ci dobbiamo nascondere che il passaggio tra polo profetico e polo politico è assai arduo, per una quantità di ragioni che qui non posso approfondire .
“Chi aumenta il sapere, aumenta il dolore”, qualcuno ribatte; ma, secondo il mio giudizio, non c’è malattia più grave e diffusa dell’ignoranza supponente, che disprezza ogni sforzo di acquisire sapere, rendendo così l’uomo tremante come una foglia avvizzita nel vento, facendogli smarrire il cammino e rendendo fioco, nella sua mente, il prezioso lume della verità.
E se anche la meta intravista sembra lontana, come ricorda il saggista centenario Edgar Morin: “Viandante, non c’è cammino, se non andando avanti” .
Navigare, indagare senza tregua: il magnanimo Ulisse è l’archetipo, secondo il mio giudizio, del miglior spirito occidentale; nel suo lungo viaggio, piange due volte, prima perché la sua Itaca è lontana, poi perché l’ha raggiunta e l’ha vista così diversa dal suo sogno: angusta, piena di pietre e di sterpi…E dunque riparte, rielaborando le sue esperienze in modo vitale e creativo.
La poesia può fornirci un’adeguata conclusione: il poeta, parlo del grande poeta, anticipa, ci può mostrare la capacità di sintesi. Ecco come Erri De Luca rappresenta l’acqua, nelle sue varie sfaccettature, ne rivela la preziosità e ne condanna lo spreco:
Sta nella nuvola e nel pozzo,
nella neve e nella noce di cocco,
negli occhi e nel fiume,
nell’arcobaleno e nel lago,
nel ghiaccio e nel vapore della pentola sul fuoco,
nella bocca.
È la maggioranza della superficie.
È la maggioranza del corpo.
Una persona è acqua che cammina, dall’acqua di placenta all’acqua del sudario.
In ebraico è plurale, màim, acque.
In francese è una vocale sola, eau, ô.
In greco e in tedesco è neutra.
In russo e nelle latine è femminile.
L’impero di Roma si costruì sull’acqua, fu idraulico.
Resiste più di altri manufatti la fabbrica di archi, gli acquedotti.
Dal fondo del pozzo avverte il terremoto.
Fa tremare il ramo scortecciato in mano al rabdomante.
La sua avventura chimica è prodigio, ossigeno più idrogeno,
ad accostarli, esplodono.
Spegne fuoco, anche quello dei vulcani.
Fa il pane, fa la pasta.
È nel bianco e nel rosso dell’uovo. È nella sua buccia.
È nella carta e nel vino, nelle ciliege e nelle comete.
Chi la spreca verrà assetato.
Ho visto città al buio andare coi secchi al fiume,
ho visto Mostar e Belgrado.
Ho visto il Danubio avvelenato dalle rovine di Pancevo.
Sobborgo di industrie distrutte da una guerra aerea.
Il Danubio in maggio ha avuto la più grande piena del secolo,
gli argini sono tracimati in alluvioni nel sud della Germania.
Il Danubio ha chiesto acqua al cielo per lavarsi e l’ha avuta.
Ma i banchi di aringhe che salgono dal Mar Nero no.
Chi sporca l’acqua verrà sporcato.
Secondo Geremia la voce di Iod/Dio è chiasso di acque nei cieli. Giusta sarà la sorpresa di chi ascolterà la prima domanda, appena morto:
«Quant’acqua hai versato?».
Ognuno di noi sarà pesato a gocce .
Osserviamo con attenzione la poesia di De Luca: l’intonazione è mitica, cioè narrativa, ricca di quei simboli che le varie tradizioni hanno attribuito alla fluidità dell’acqua; anche la sanzione, che fulmina coloro che sciupano il prezioso elemento, contiene uno slancio profetico. Spetta a noi, umanità contemporanea, tradurre nella storia e nelle dinamiche sociali un sistema di norme che scoraggi gli abusi e gli sprechi, orientando invece al risparmio e, soprattutto, alla condivisione. La convivenza nel mondo è messa a rischio dalle forti tensioni che si possono sviluppare, generatrici di conflitti e anche di guerre.
Spero in un domani migliore per me, per i miei figli e anche per voi lettori, con cui mi sento unito da un vincolo di corresponsabilità globale, saldati assieme come perle legate ad un unico filo .
Giuseppe Goisis
filosofo nella Città
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