LINEE DI ESTETICA STEFANINIANA
- Le due anime del platonismo.
La prima riflessione estetica di Stefanini nasce da una lettura attenta dei testi platonici da cui emerge la preoccupazione fondamentale di conciliare l’immobile identità con se stesse delle idee-forme ed il loro rapporto con il mondo della storia, del divenire, della vita; queste due anime del platonismo sono le due anime anche della ricerca del pensatore trevigiano[1].All’interno della nutrita produzione di Stefanini dedicata ai temi dell’estetica, ci pare di poter individuare alcuni nuclei fondamentali: il rapporto arte-tempo, l’arte come espressione assoluta, la metafisica dell’arte (vincolo formativo e vincolo formante), i possibili esiti apofatici dell’indagine estetica, l’arte come parola assoluta che si fonda sulla realtà metafisica della persona e contemporaneamente sostanzia la persona stessa.
Il problema estetico in Platone (1926) precisava: «La conoscenza di verità superiori com’è possibile se siamo immersi nella realtà fuggevole, in cui tutto sembra transitorio e contraddittorio? Com’è possibile il concepire?»[2] Se è possibile conoscere, platonicamente, solo facendo ricorso all’anamnesi ed alle idee «forme perfette immutabili eterne delle cose»[3], «prigionieri del corpo, lontani dal mondo ideale della pura contemplazione», possiamo ipotizzare il ritorno dell’anima alle idee per il solo tramite dell’attività estetica[4].
Nell’interpretazione di Stefanini Platone, in analogia con il modo di procedere di tanti suoi dialoghi, carica il concetto di bello di una valenza antinomica: «Il bello è qualcosa di diverso dal bene: ha in sé più e meno del bene. Il bello è l’aspetto soggettivo del bene: il bene nel suo divenire nello spirito umano. Il bello è la capacità di fare e di esprimere comunque la nostra attività. Nel bello è la paternità, il processo generativo del bene»[5]. È, ancora, «il principio platonico della perfetta sinonimia di virtù e bellezza», che, «togliendo ogni autonomia al fatto estetico, impedisce di comprenderne e valutarne la funzione»[6].
Le aporie del platonismo vengono ri-affrontate in Problemi attuali d’arte[7]. Del saggio privilegiamo la pars construens, cioè quella delle «suggestioni metafisiche dell’arte»: in altri termini del ruolo e delle possibilità dell’arte nel processo fondativo dell’opera d’arte e del ruolo dell’artista. Qual è la differenza tra «vincolo formale» e «vincolo formativo»? Il vincolo formale o trascendentale, secondo la terminologia kantiana, è «il concetto dell’io come forma sintetica di una molteplicità empirica, forma vacua e astratta fuori della materia che in essa si cala» e non può «in alcun modo giustificare né l’origine dell’arte, né quel principio spirituale, quella viva e singolare interiorità a cui sentiamo di aderire in modo permanente, a malgrado le dispersioni e le distrazioni della mondanità: la nostra persona. La pura interiorità e spiritualità, nei limiti di una concezione trascendentalista, non costituisce un problema, ma una impossibilità». Altrettanto impossibile diventa la fondazione di un «postulato di trascendenza»[8].
Il vincolo trascendentale «rende inconcepibile anzitutto l’arte stessa, in quanto il rapporto dell’artista con la sua opera non potrà mai essere rapporto d’una forma ad una materia, relazione sintetica d’una interiorità ad una esteriorità. L’opera d’arte ha bensì la sua forma, la sua sintesi, ma in quanto sia sintesi e forma a se stessa. La molteplicità e la complessità degli elementi che vivono in essa – il variare delle note, dei suoni, dei colori, delle linee, delle immagini – sono materia d’arte in quanto ineriscano ad un organismo unitario che fa fluire il suo palpito in tutte le parti senza diminuirsi o smembrarsi, e richiama a sé dalle singole membra l’indivisa sostanza che tutte le alimenta. L’opera deve essere un’entelechia per poter essere opera d’arte. […] Tutto ciò si può esprimere dicendo che l’opera d’arte è legata a se stessa da un vincolo trascendentale: unità di sintesi e molteplicità di parti indissolubili nella loro interdipendenza. Altro è il vincolo che lega l’artista all’opera. Se non è rapporto trascendentale, non si può definirlo nemmeno col concetto d’intenzionalità escogitato dalla fenomenologia, perché questo rapporto pone bensì un soggetto ed un oggetto in reciproca trascendenza ed eterogeneità, e stabilisce altresì una reciproca inerenza tra i due, ma non specifica la natura di quest’inerenza ed esclude che l’oggetto possa inerire al soggetto in quanto ne procede secondo un vincolo generativo»[9].Autentico “vincolo generativo”, dunque, tra opera d’arte e artista: qualsiasi altro legame è escluso, sia quello trascendentale che non spiega se non la natura formale del legame stesso, né quello intenzionale che vale per un mero rapporto gnoseologico. L’artista che non imita, ma ri-crea, agisce in forza della sua vis poietica.
- L’arte e il tempo.
Il tema del rapporto tra arte e tempo è sviluppato esplicitamente nel saggio del 1941. Arte e tempo[10] chiarisce in modo esplicito il nucleo fondamentale dell’estetica stefaniniana: la natura dell’atto e del fatto estetico è spirituale e non condizionata da strutture spazio-temporali se non per l’inevitabile e contingente presenza nel mondo dell’opera d’arte; l’arte è ab-soluta dalla storia intesa come sviluppo ed intreccio di avvenimenti in grado di disintegrare in una successione temporale l’essenza del fatto estetico che ha una sua permanenza del tutto incondizionata dalla «macina» della storia. Storicismo ed estetismo[11], non a caso titolo di un saggio del 1940, sono i due termini inconciliabili di un dilemma filosofico che preoccupa il pensatore trevigiano sin dai suoi lavori giovanili sul platonismo e che continuerà ad essere ripensato fino agli ultimi scritti.
Arte e tempo suscita l’interesse di Banfi e degli studiosi di estetica non idealisti; precisa le relazioni tra il fatto estetico in sé e le sue coordinate spazio-temporali e si collega alla produzione precedente, in modo particolare a tutte le riflessioni sul rapporto tra la dimensione della temporalità e quella dell’ontologia. L’arte, sola tra le forme dello spirito, ha la capacità e la possibilità di superare i limiti dello spazio e del tempo: può esibire una sua «natura incondizionata, sottratta ad ogni vicissitudine che leghi la manifestazione particolare ad uno sviluppo causale, a una consecuzione necessaria nell’ordine logico o nell’ordine fisico. Tutto quello che nasce sotto il segno dell’arte ha la specie del cominciamento assoluto»[12].
«La storia rapisce, l’arte possiede. La storia scorre, l’arte fissa l’attimo. La storia accumula i benefici e li accresce trasmettendoli di generazione in generazione; l’arte dà in una sola volta tutto quello che ha. La storia chiede il concorso di mille agenti; l’arte è solitaria e non si concede se non a chi, penetrando in essa, accetta la sua clausura monastica. La storia è azione e reazione di forze che si condizionano reciprocamente; l’arte è l’incondizionato in quanto tale»[13].
Per quanto si cerchi di dimostrare che l’artista esprime la Weltanschaung del popolo cui appartiene, «dare ragione del motivo storico che sollecita determinate espressioni artistiche non basta a rivelare interamente il segreto dell’opera bella»[14]. Non solo: «un’altra constatazione riesce sconcertante, quando si passa dalla forma formans alla forma formata, cioè all’elemento oggettivo in cui l’arte si estrinseca e si adempie. La constatazione sconcertante è che, anche indipendentemente dalla sollecitazione di fattori spirituali e culturali, le forme dell’arte si storicizzano e si evolvono per un processo naturale, affatto autonomo alla iniziativa dell’artefice e ai moventi intimi della coscienza degli individui e delle generazioni. […] Così è necessario constatare quello che da un altro punto di vista è impossibile, che cioè la vita delle forme si svolge nel ciclo che comprende nascita crescita maturità decadenza e morte»[15].
Solo uno storicismo ex parte objecti può segnare il trionfo del tempo sull’arte: il tempo può intervenire a deteriorare irrimediabilmente l’opera d’arte per quanto riguarda i mezzi di cui si è servito l’artista per la sua realizzazione, mai, però, potrebbe mettere in discussione il processo creativo in quanto tale, il che cos’è dell’arte[16]. Il genio artistico, che ha comunque speso tutta la sua vita in un «tirocinio umano» faticosissimo «spiega come l’intemporale si radichi nel tempo e nella storia»; prima di raggiungere i vertici della sua produzione, l’artista si è nutrito profondamente degli elementi della storia e della vita che lo circondano. Ma l’opera d’arte, «che dipende unicamente dall’arbitrio estemporaneo dell’artista, riflette anche in sé, indirettamente, il senso della storia nella quale è andata corroborandosi la potente concentrazione spirituale, cioè la personalità dell’artista a cui l’opera stessa deve la vita»[17].
Il rapporto tra storicità conclusa in se stessa e creazione artistica era stato prospettato anche in Storicismo ed estetismo, prolusione al passaggio alla cattedra di storia della filosofia[18]. Stefanini imposta il problema fondamentale di metodo, relativo alla possibilità stessa di una storia della filosofia come disciplina, la quale «per mantenersi filosofia dovrebbe rinunciare ad essere storia; e se storia volesse mantenersi, non della filosofia sarebbe storia, ma di residui archeologici, destituiti ormai di ogni interesse filosofico»[19]. Ma Stefanini si pone anche la domanda più radicale al riguardo del rapporto tra una dimensione «storicistica» ed una dimensione «metafisica» di un discorso filosofico. Infatti «sarà possibile aderire con maggiore fedeltà al senso della storia, rispettare l’individualità caratteristica dei singoli momenti della storia, evitare una ricaduta nel platonismo, pur senza spezzare l’involucro protettivo dell’unità e della totalità?»[20]
Attraverso le vicende dello storicismo europeo, che vengono delineate soprattutto per il tramite dello storicismo vitalistico di Dilthey, per il quale Stefanini manifesta particolare interesse[21], si precisa tuttavia che «la connessione strutturale che ci salda a noi stesi nel processo delle nostre esperienze storiche non esaurisce tutto l’essere che noi siamo. Affinché la vita possa mantenersi unitaria e coerente deve includere in sé il riconoscimento ch’essa non è il Tutto ed esprime da sé un’idea la quale non costituisca ma significhi di sensi positivi, per quanto inadeguati, l’Assoluto che infinitamente ne trascende contenendo nel suo potere l’essere che noi siamo e la totalità dell’essere creato»[22].
Stefanini dunque non accetta «il postulato dell’autosufficienza della storia», ma, nemmeno, «l’immanenza del senso della vita alla fenomenologia storica»[23]. Due sono le Grundformen irriducibili del pensiero filosofico: la ragione che, consapevole del proprio limite «si affatica per rendere il limite stesso trasparente all’Assoluto che la trascende e induce la vita a lavorare con fede per rendere sempre più espressive nell’umano e nello storico le tracce del divino e dell’eterno»; «dall’altra parte la ragione che si affatica per riassorbire il limite in se stessa o nella natura o nello spirito umano, e induce la vita a custodire la propria autosufficienza». Le due Grundformen rappresentano rispettivamente il valore positivo e quello negativo della storia della filosofia; positivo è anche il negativo nel senso che «la tensione dello sforzo per incrementare le risorse della vita ne accresce il pregio e la dignità per il giorno in cui essa decide di aprirsi nella sua dimensione metafisica»[24].
Questa metafisica appare adeguata solo come dimensione dell’estetica, che è la sola, possibile, «anima del compromesso». È l’arte che «interrompe l’infinito angosciante rinvio della realtà e cala l’infinito nella forma finita e compiuta; è l’arte che risolve il dissidio della naturalità e della spiritualità, e foggia la corporeità dell’ideale e l’idealità del corporeo». Il filosofo-storico della filosofia può evidenziare come «sulla dimensione storica dell’esistenza s’innalza una dimensione metafisica», come «il mondo umano e storico acquista una trasparenza metafisica e i valori conquistati dall’esperienza e dall’opera dell’uomo compiono la rivelazione di un’eterna essenzialità di valore», come si possa giungere ad un criterio che contemporaneamente trascenda la storia e la giudichi affondando le sue radici nella storia stessa[25].
- Arte e critica d’arte.
La critica d’arte, in più occasioni, presenta a Stefanini il pericolo di esiti apofatici. Il tema, affrontato in Arte e critica[26] in una serrata discussione con il pensiero di Benedetto Croce, viene ripreso in Premessa metodologica all’estetica[27], in cui si affronta il vero problema del metodo: «Punto di partenza della ricerca filosofica non è né un’“esperienza pura” da dover avallare nelle sue differenze e nelle sue contraddizioni, né un’“idea pura” da dover sviluppare nelle sua fecondità e nella catena rigorosa delle sue deduzioni e applicazioni; non è né la storia come spettacolo di fatti da registrare, né la teoria come potere tribunalizio sui fatti. Se si assume inizialmente l’una o l’altra di queste due posizioni ci si abbatte sulle antinomie accennate, e non c’è verso di ristabilire l’unità dell’atto umano, che è l’unità della filosofia, con una politica pendolare che oscilli tra l’uno e l’altro estremo per ristabilire dei contatti e delle integrazioni: non ne uscirebbe la sintesi, ma l’amalgama e il compromesso»[28].
Le «antinomie accennate» evidenziano il rischio, molto sentito, di possibili esiti apofatici dell’indagine estetica: «Bellezza e arte non vogliono essere interrogate perché il loro dono è già una risposta a cui nulla si può aggiungere senza contaminare la gratuità di ciò che si offre e l’assoluta disponibilità di chi si apre al dono. Chiedere, dinanzi ad essa, il “che cosa”, il “come”, il “perché” sarebbe infirmare la validità di un documento esauriente e ineccepibile. La parola dell’arte ci rende muti, come la parola di Dio. “La Venere di Milo è senza prove”. Il compito dell’estetica, al massimo, potrebbe essere di esaurire un processo di eliminazione, simile ad una teologia negativa, per concludere che la riflessione è costretta a dare le proprie dimissioni dinanzi al fatto estetico»[29]. Ma, si chiede Stefanini, «appartiene l’arte veramente all’irriflesso o, peggio, all’inconscio?»[30] Che diritti ha il critico di parlare dell’arte e sull’arte? Si tratta delle stesse ragioni sottese a qualsiasi discorso umano e razionale perché umano. «Tutto è legato al tutto nella vita dell’essere e nella vita della coscienza, senza nulla togliergli del suo peso specifico e della sua consistenza autonoma, può far presa sull’arte un concetto dell’arte, ancorché non sia l’equivalente dell’arte. L’essenza non s’abbatte contro il fatto, ma s’inserisce nel fatto vivificandolo. Per l’arte, come per ogni altra umana attività, vivere e comprendere non costituiscono un dilemma, perché il comprendere è un atto di vita e solo è umana la vita che si comprende»[31].
I possibili esiti apofatici dell’estetica, l’impossibilità di dare espressione verbale all’arte, impegnano in modo particolare Stefanini. Proprio nel momento in cui tutto sembra svanire, dal punto di vista logico-espressivo, prende corpo un nuovo metodo e un modo nuovo di intendere l’arte: la parola assoluta.
Si capisce dunque la necessità di un metodo integrale: «La genesi della filosofia (e dell’estetica), invece di essere deduttiva o induttiva, è nucleare. Deduzione e induzione sono i due astratti dell’atto umano. Su questi astratti si reggono rispettivamente le scienze esatte e le scienze della natura, esse stesse mal reggendosi senza qualche dissimulato ausilio del processo opposto, nel quale cercano un nostalgico complemento alla loro unilateralità. Platone ha insegnato agli uomini la via della deduzione (diáiresis) e quella della induzione (sinagoghé), ma i filosofi per lo più non hanno posto attenzione alla via che gli era più cara, cioè alla diagoghé. Si deve recuperare il senso del metodo integrale che, sulla deduzione matematica e sulla induzione sperimentale, sovrasta con la eduzione filosofica, quale esplicazione graduale e indefinita di un principio che tende ad organizzare ogni particolare nella vita del tutto e a dar vita al tutto nella variata molteplicità delle parti»[32].
- La preoccupazione del fondamento metafisico.
L’arte come espressione assoluta, 1948[33], e L’arte come parola assoluta, 1954[34], si ricollegano alle tematiche di Arte e tempo. Emerge la presenza di un elemento, se non totalmente nuovo, divenuto ora principale: il fondamento della metafisica. È del 1948, appunto. la monografia Metafisica dell’arte[35], prima, non a caso, di una trilogia: Metafisica della forma e Metafisica della persona.
L’arte come espressione assoluta, è un saggio di tre intense pagine in cui Stefanini delinea con chiarezza la scoperta copernicana che interessa l’arte nell’età moderna e cioè la capacità esclusiva dell’arte di ricreare il mondo e non di imitarlo. «L’estetica moderna vanta, al pari della dottrina della conoscenza, la sua scoperta copernicana: la scoperta, cioè, che l’imagine[36] dell’arte non è rappresentativa di un mondo esterno o superno, ma costitutiva del modo di sentire di un’anima che in quella si manifesta e s’adempie. La vecchia dottrina della mimesi è capovolta, nel senso che non si tratta più di riprodurre sensibilmente un modello dato o di uguagliare un termine di perfezione oggettiva, ma di esemplare in una fisicità determinata l’intimità dell’artista. È intrinseca all’arte un’ursprünglich-bildende, non una nach-bildende Kraft (Cassirer)»[37].Se è possibile stabilire le equazioni arte-intuizione e arte-sentimento e, in modo particolare, quella arte-espressione, esse, tuttavia, non esauriscono le infinite possibilità dell’arte e, soprattutto, la natura intrinseca e specifica dell’arte stessa: l’equazione arte-espressione è vera nel senso che l’arte è concentrica con l’espressione, ma non coestensiva. Se l’espressione appartiene sempre al regno della spiritualità, non ogni espressione è espressione artistica.
«Ora la differenza specifica, che distingue l’espressione artistica dalla comune espressività di tutte le attività dello spirito, è l’assolutezza. Fuori dall’arte ogni termine mentale, ogni rappresentazione sensibile, ogni opera compiuta è relativa ad altro che l’atto umano non risolve nel suo finito potere, ma significa con un infinito rinvio al di là di se stesso. Ciò che noi costituiamo nell’atto nostro non è l’essere del mondo, l’essere dell’io, l’essere dell’assoluto, ma un senso dell’io, del mondo, dell’assoluto, perciò l’imagine cosmica, l’idea psicologica, l’idea teologica pesano nelle mani dell’uomo, quasi attratte verso un centro di gravità con cui il soggetto pensante non riesce a farsi coincidente. Solo nell’arte ogni pesantezza cede alla levità di un gesto che non ha condizioni fuori di sé e non lascia nulla d’insoluto oltre il termine in cui s’adempie. Non a torto gli antichi divinizzarono questo gesto e, se non riuscirono a pensare ai poteri creativi della fantasia, oggettivarono in dio il momento dell’ispirazione poetica, per assistere, nello stato dell’“indiamento” e dell’“entusiasmo”, al compiersi di un evento che, nell’uomo, è più che umano. Non più l’imagine dell’arte è legata al particolarismo della percezione sensibile, incalzata da altre rappresentazioni sopravvenienti, con cui si integra o da cui è contraddetta: il fantasma poetico, in conseguenza dell’iniziativa assoluta da cui deriva, trova il punto di coincidenza dell’universale e del particolare, dello spirituale e del corporeo, dell’ideale e del sensibile. Nasce così la forma come oggettività sensibile, unitaria, totale, autosufficiente, finita e infinita; […] qui veramente si attua la sintesi a priori che non presuppone nessun dato e converte ogni fatto in atto»[38].
Il segno dell’arte non rinvia ad altro da sé; è segno e significato ad un tempo: «Quanto nel simbolo della scienza, nell’idea filosofica, nell’intenzione morale è aperto ad un’allusione infinita e impersonale, non s’incontra con la vigorosa concentrazione spirituale da cui nasce l’opera d’arte, se non per diventare sostanza del suo sentire e concludersi in essa, esprimendosi nell’assolutezza dell’imagine. Solo l’imagine della più imaginifica delle attività umane non ammette significati che la oltrepassino. E poiché in essa finisce l’atto espressivo, la forma bella reca quel segno di nobiltà spirituale che è lo stile: impronta inconfondibile di un’anima che conferisce alla forma, non solo unità, ma unicità impermutabile. Invero, per aspirare all’impersonalità, tutte le altre attività umane recano in sé qualche traccia indelebile dello stile individuale, e nemmeno la voce della scienza e della filosofia riesce ad estinguere l’eco dell’intimità spirituale che la pronuncia. Anche quando si fa segno della verità, la parola resta imagine di bellezza. Nell’integrità dell’atto umano, il momento espressivo resta intrinseco al momento semantico, e tutto ciò che esprimiamo dall’atto nostro ha valore di verità in quanto, legato ai modi della dimostrazione e della sperimentazione, si trasponga in simbolo d’universale allusione. Ma l’arte isola, nell’atto umano totale, il momento espressivo e lo erige in assoluto. La più concreta e “sensuosa” delle attività umane nasce dal prestigio d’un astrazione che ritaglia l’attimo del divenire dal tempo e lo consacra all’eternità, sottraendo l’uomo alle condizioni normali dell’esistenza finita: testimonio d’un origine e d’una destinazione»[39].
Arte come parola assoluta riprende in pieno il breve intervento che abbiamo analizzato, ma con la consapevolezza di un’altra ‘ri-scoperta’ importante, che si realizza teoreticamente nella sua piena autonomia proprio in questi anni: il personalismo. «Nella sua natura personale, l’essere è parola: manifestazione a se medesimo ed autopossesso dell’essere nella propria inseità. V’ha bensì, nell’essere, dell’essere che non è personale (le cose che non parlano), ma l’essere che non parla, non esiste e non vale se non in virtù dell’essere personale, che lo fa essere, manifestandosi in esso, attraverso la sua parola»[40]. La differenza sostanziale tra espressione e parola sta dunque nel fatto che chi parla è la persona in virtù del suo vincolo metafisico. «La parola dell’uomo non è il Verbo. Tutto sarebbe, per noi, chiarezza assoluta, se per mezzo della nostra parola riuscissimo a renderci trasparenti a noi, generandoci nell’autocoscienza ed esaurendo nella nostra parola il nostro essere. Non è questa la condizione umana: l’autocoscienza non riesce a farsi, in noi, autoctisi»[41].
Autentico “autopossesso” è quello dato dalla “parola”, che ha un suo corpo, non siamo nel regno dello spirito assoluto hegeliano o neo-hegeliano. La «corpulenza» della parola è, in noi, «la divina virtù di toccare il sensibile, trascendendolo verso l’universale e lo spirituale. Il concetto, nel segno, tocca il sensibile e vi si appoggia nel momento stesso in cui lo rifiuta». La parola-fatto, la parola-segno, la parola-imagine ci rivelano a noi stessi, come distinzioni interne all’unica forma espressiva: tanto più è rivelatrice la parola quanto più «i suoi vari aspetti trapassano l’uno nell’altro e tutti circolano nell’insieme», quando le due distinzioni saussuriane della parola nel sua dimensione sincronica ed in quello diacronica si congiungono[42].
La dimensione metafisica dell’arte è il tema esplicito della monografia ad essa dedicata: Metafisica dell’arte. Preparata da un quasi trentennale lavoro sull’estetica, la breve monografia, intendendo esplicitare la dimensione «metafisica» dell’arte, esordisce chiarendo il ruolo che in essa riveste la parola: «la parola dell’arte non può mai essere vista come mezzo alla cosa, ma come cosa essa stessa, la cui significazione si manifesta, anziché nell’oltrepassare l’imagine per scoprirvi intenzioni recondite, ripercorrendo lo spazio che intercorre tra l’imagine e quell’intimità di sentire che in essa si palesa e si adempie»[43]. Sottratta ai guasti del tempo e degli umani «mancamenti»[44], l’arte non è più «contemplazione demiurgica di un mondo noetico che sottoponga l’opera bella al canone estrinseco del tipo intellettivo, ma, come l’idealità del creato resta intrinseca all’atto creativo, così i valori di essenza che l’arte esprime non hanno altra origine che dall’inerenza della forma al principio generatore, cioè al momento lirico dell’artista che universalizza l’imagine nell’assolutezza del suo atto espressivo. […] Se nella storia è stato compiuto il processo dalla teologia all’estetica, è ben legittimo che la speculazione compia ora il processo inverso e, pur tenendo distinte le due sfere, tragga dall’esperienza estetica quelle rivelazioni sulla metafisica dell’essere che non potrebbero derivare da una sperimentazione esclusivamente naturalistica della realtà»[45].
- L’imagine ri-crea e non imita.
La metafisica dell’arte è data dalla sua natura intrinseca di «spiritualità formante»: «Tutto questo si riassume nel concetto di “spiritualità formante” che si oppone a quello hegeliano di “spiritualità formata”: cioè la spiritualità prende forma, non nel senso che essa si stemperi e diluisca nella forma, ma nel senso che crea la sua forma»[46]. L’arte si esprime in tutto il suo realismo, inteso letteralmente come «creazione di realtà», non solo e non tanto ex parte obiecti, ma ex parte subiecti, nel senso che il creazionismo dal nulla (ex nihilo) è quello del soggetto artista. «Creare un’imagine d’arte è scatenare dal fondo della coscienza dei dèmoni che nessuna forza riesce poi a contenere», in una forza generatrice che mantiene «l’autonomia del generato senza una dipendenza vivificante. La necessaria trascendenza non aliena i due piani, e persiste nella presenza e nella partecipazione»[47]
La metafisica dell’arte non si dissolve in un estetismo «che accetta dell’arte i guizzi istantanei i quali illuminano momenti isolati dell’essere, ciascuno colto nel baleno d’una fatua assolutezza»[48], ma si precisa in un confronto storico con il pensiero medievale, che risulta caratterizzato dalla «trasparenza dell’imagine cosmica e dell’imagine psichica». Il concetto cristiano di creazione è base ontologica e fonda la realtà con cui «l’Essere divino non si prolunga negli esseri finiti in una sua determinazione modale, ma suscita l’essere fuori di sé dal nulla, stampando l’orma del suo potere sulle cose create ed esemplando un’imagine si sé nella natura razionale finita, che si ripercuote in una concezione imaginistica del conoscere umano la cui universalità ed assolutezza presuppone sempre l’apertura del termine mentale sull’oggetto metafisico a cui allude, senza costituirlo né risolverlo nel potere espressivo della natura finita e contingente»[49].L’importanza della filosofia medievale si rivela nella sua capacità di definire la funzione dell’immagine: «L’imagine assolve la sua funzione mediatrice, nella concezione medioevale, senza dissolversi in ombra o fantasma, anzi ribadisce la sua “positività” quanto più positivi debbano essere i sensi validi per le sue allusioni»[50].
Agli inizi del pensiero moderno, con il cartesianesimo ad esempio, «l’imagine si chiude in se stessa, tronca le file della sua dipendenza e il pensiero umano si assolutizza, non come pensiero dell’assoluto, ma come assoluto esso stesso. Prima a rendersi opaca è l’idea teologica. L’ontologismo è l’opacità dell’idea teologica»[51].Attraverso le vicende del kantismo e del panlogismo hegeliano che opacizzano sempre più l’immagine trasparente del cosmo e dell’uomo, nel più recente pensiero, invece, «si compie l’evento risolutivo: il soggetto finito, contingente, relativo, non riuscendo più a contenere ciò che lo trascende, fa scoppiare l’involucro dell’universale, dell’infinito, dell’assoluto entro il quale si teneva chiuso. […] Tanto travaglio spirituale della nostra epoca si conclude nell’“empirismo dell’esistenzialità”. Non è senza un profondo significato che le fila del movimento si riannodino all’intima esperienza del Kierkegaard, per la collisione, da lui vissuta e sofferta, tra la sfera profana e mondana della esteticità e quella religiosa dell’infinito e dell’assoluto. L’imagine cosmica e l’imagine psichica, divenute opache, non potevano percepire ciò che le trascende se non nella violenza di un urto che scomponeva l’equilibrio dell’anima in un’alternativa angosciante e dilaniante»[52].
Anche e soprattutto «le vecchie metafisiche, che riguardavano l’essere dal di fuori» non reggono l’urto: «sono rese insignificanti, rispetto al valore che pretendevano di rivelare al pari di ogni istituto umano, di ogni opera costruttiva, di ogni azione di bene, e significano soltanto un modo di determinarsi dell’essere, rivelando quello che la metafisica nuova spreme da tutte le metafisiche del passato, indifferentemente, cioè il senso dell’essere come limitazione assoluta, un essere per la fine e per la morte»[53]. È proprio la loro insignificanza a richiedere con urgenza l’intervento della «filosofia del Cristianesimo», essa non può rimanere «indifferente di fronte a questa vicenda del pensiero moderno che si chiude tra Cartesio e Heidegger, né può ritenere di aver esaurito in un’ora della storia la sua funzione, tanto che basti, di fronte alle presenti necessità, un richiamo al passato e un ricalco di formule e di definizioni. La dogmatica del Cristianesimo si è conclusa, nella sua immutabile struttura e nella sua formula inalienabile, in un’ora intensa e drammatica della sua storia; ma la filosofia non può trasformarsi in una dogmatica senza perdere il carattere che il Cristianesimo le ha conferito di progressiva illuminazione del vero, da parte dell’umana razionalità, per avvicinarlo alla certezza.
Quanto è avvenuto recentemente rientra nei fini della filosofia del Cristianesimo, se lo si riguarda come la controprova irrefutabile, offerta da cinque secoli d’immane ardimento speculativo, dell’impossibilità di chiudere il senso della realtà universale sul piano della mondanità temporale e di costituire l’assoluto entro i limiti del potere umano»[54].Il compito della filosofia, e di quella cristiana in particolare, consiste dunque, secondo Stefanini, nell’impegno della ricostruzione di una «dimensione verticale dell’ordine sovrannaturale» su quella orizzontale della natura del mondo e della persona. Sarebbe tuttavia una «labile costruzione» quella del senso della verticalità che non si appoggiasse ad una precisa ricostruzione dell’immagine cosmica e di quella psichica. È necessario rifondare il senso orizzontale del significato dell’essere e ristabilirne «la solidità», perché sarebbe «illusoria una soluzione dei problemi che non accettasse la prospettiva nuova in cui essi si pongono e i nuovi termini da cui emergono»[55].
Il saggio si chiude, emblematicamente, con un appello alla filosofia di Maritain «come presa di coscienza e scoperta pratica della dignità propria di ciò che si cela nel mistero dell’essere umano»[56].Proprio l’esigenza di fondare nuove certezze che possano soddisfare il filosofo moderno che sia anche e soprattutto cristiano e la riflessione sul cristianesimo che non sia di ostacolo ma solo di ausilio nella ricerca di una verità condivisa, portano Stefanini a preparare nella Metafisica della forma un altro importante capitolo nell’incessante impegno di ri-fondazione metafisica. Stefanini dichiara subito di partire dalla psicologia sperimentale e precisamente dalla Gestalttheorie, che «nella sua formulazione più generale, può intendersi come l’affermazione che la percezione dell’oggetto è altra cosa dalla somma delle impressioni di stimoli isolati o anche: il sentimento che abbiamo delle cose è l’impressione globale di un tutto che domina le parti e in sé le risolve.[…] La forma è un distinto dai singoli elementi dell’oggetto considerati per analisi»[57].
Ne I fondamenti dell’estetica, relazione schematica introduttiva presentata nel 1951 a Gallarate[58], Stefanini apre affermando che «i fondamenti dell’estetica sono teologici. Il concetto dell’essere nella sua assolutezza condiziona il concetto del nostro rapporto con l’essere nell’esperienza artistica ed estetica. Il Dio-Demiurgo, che plasma le cose guardando le idee e imprimendone il conio sulla materia informe, condiziona l’Estetica della visione e della imitazione. Il Dio-intellezione di Aristotele condiziona l’Estetica dei tipi intellettivi e della verosimiglianza. Il Dio-spirito del Cristianesimo condiziona l’Estetica della espressione e della creazione: l’Estetica della Parola assoluta»[59].
La premessa fondamentale è anche risposta alle domande essenziali o «manifestazioni polari» che lo studio dell’estetica propone e che vanno mantenute nel loro carattere dialettico. L’estetica, dunque, è visione o espressione? È linguistica o uso logico della lingua? È contenuto o forma? È idealità o sensibilità? È realismo o surrealismo? È chiara compiutezza formale oppure ombra e sfumato? È ispirazione geniale o perizia tecnica? È personalismo o universalità cosmica? Vita senza arte o vita come arte? Scienza o arte? Le alternative delle domande debbono essere viste «nella loro complementarietà, non nella loro reciproca esclusione», tanto da consentire quella risposta che è diventata l’emblema dell’estetica stefaniniana: la metafisica è zoppa se non cammina sulle due gambe della logica e della poesia[60].
[1] Il contrasto tra i due platonismi è stato segnalato da A. ZADRO, Platone nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1987, pp. 118-119.
[2] Il problema estetico in Platone, SEI, Torino 1926, p. 5.
[3] Ivi, p. 5.
[4] «La mente non è fredda facoltà d’analisi, che vada tramando la fragile rete dei suoi raziocini, ma è slancio passionale dello spirito che sale verso l’ideale, perché questo risplende nel raggio della bellezza» (Ivi, pp. 6-7).
[5] Ivi, p. 12. L’analisi di Stefanini si riferisce, in questo caso, ad Ippia maggiore.
[6] Ivi, pp. 10-11.
[7] Problemi attuali d’arte, Cedam, Padova 1939.
[8] Problemi attuali d’arte, pp. 31-32. «A maggior ragione riuscirebbe impossibile erigere su una base trascendentale un postulato di trascendenza. Incapace di trascendere la empiricità per dare consistenza a se stessa, quale consistenza la spiritualità finita potrebbe attribuire ad una spiritualità infinita e con quali mezzi potrebbe supporne la trascendenza? Il senso del divino non potrebbe intervenire nell’ordine trascendentale se non per suggestione mistica, intendendo il misticismo nel significato deteriore d’irrazionalità. Una fede di tal genere non sarebbe un prolungamento ed un potenziamento dell’ordine umano delle conoscenze, ma la netta contraddizione di quanto si costruisce nella sfera delle possibilità umane» (p. 32).
[9] Ivi, pp. 32-33.
[10] Arte e tempo, “Archivio di filosofia”, XI, 3, 1941, pp. 371-382; ripubblicato in Arte e critica, Principato, Milano 1943.
[11] Cfr. infra.
[12] Arte e tempo, p. 57 (citiamo da Arte e critica).
[13] Ivi, p. 59.
[14] Ivi, p. 63.
[15] Ivi, p. 62.
[16] Ivi, p. 63.
[17] Ivi, pp. 67-68.
[18] Nel 1940 Stefanini succede a Emilio Bodrero sulla cattedra di Storia della Filosofia dell’università di Padova.
[19] Storicismo ed estetismo, «Logos», XXIV, 1941, 5, 1, pp. 27-39. «La posizione speculativa che ci porta di fronte a questo dilemma è una delle più esplicite illazioni del moderno storicismo: e, quindi, se lo storico della filosofia vuol evitare la non accogliente destinazione di custode di un mausoleo, e crede invece nella persistente vitalità di pensatori che ci precedettero, con i quali sia possibile conversare per trarne un arricchimento della nostra umanità, a codeste forme estreme di storicismo deve istituire il processo, per vedere se deduzioni tanto allarmanti non traggano origine da un vizio iniziale, e se non sia possibile correggerlo per impedire che la storia volatilizzi la filosofia» (p. 28).
[20] Storicismo ed estetismo, p. 30.
[21] «Si può ben accogliere il detto di Dilthey che l’uomo è un essenza storica. Se non viene a sé dal proprio atto, sia pure nel breve tempo contenuto tra due battiti di cuore, l’uomo non si intende. E più si intende, quanto più diffonde il ritmo della vita e quanto più, nell’esperienza della sua vita, concorrono le esperienze solidali di altre vite e delle generazioni. Se nella magnanima presunzione d’isolamento, l’uomo volesse evitare l’inserzione nella sua storia e nella storia, quale gliela reca il mondo sociale e politico in cui vive, nell’attimo inconsistente egli stringerebbe una larva, senza le dimensioni della vita. Si deve anche accogliere dallo stesso Dilthey l’esigenza che codesta necessaria inserzione avvenga mantenendo l’unità della vita. Riecheggiando un motivo classico, potremmo dire che niente è nell’uomo che prima non sia stato nella storia, eccetto l’uomo stesso: e intenderemmo per uomo la coesione strutturale per cui egli ritrae la molteplicità delle esperienze storiche nel fondo unitario della sostanza spirituale e concresce con quelle, senza ammettere fratture, incoerenze, disarmonia» (Ivi, p. 37).
[22] Ivi, p. 38.
[23] Ivi, p. 37.
[24] Ivi, p. 39.
[25] Ivi, pp. 38-39.
[26] La discussione sulle tematiche crociane è contenuta nei due paragrafi intitolati Apofaticità della critica in B. Croce e Empiricità della critica in B. Croce (Arte e critica, pp. 220-229). Il tutto era comparso, come un lungo saggio dal titolo L’ineffabile nella critica d’arte, in Studi critici, Pubblicazioni del R. Istituto di Studi Filosofici-Sezione di Padova, Bocca, Milano 1942, pp. 145-191.
[27] Premessa metodologica all’estetica, «Giornale critico della filosofia italiana», XXXII, 1953, 2, pp. 136-154.
[28] Ivi, p. 147.
[29] Ivi, p. 137.
[30] Ibidem.
[31] Ivi, p. 139.
[32] Ivi, p. 148.
[33] L’arte come espressione assoluta, «Humanitas», III, 1948, 11, pp. 1059-1061.
[34] L’arte come parola assoluta, «Giornale critico della filosofia italiana», XXXIII, III serie, 1954, 8, pp. 218-240. Su questa tematica Stefanini per l’anno acc. 1951-52 aveva approntato anche le dispense L’estetica come scienza della parola assoluta, Cedam, Padova 1952.
[35] Metafisica dell’arte, “Humanitas”, II, 6-7, 1947, pp. 598-610, 706-714; ripubblicata in Metafisica dell’arte e altri saggi, Liviana, Padova 1948.
[36] Stefanini usa sempre il termine imagine che rinvia direttamente al latino imago.
[37] L’arte come espressione assoluta, p. 1059.
[38] Ivi, p. 1060.
[39] Ivi, p. 1061.
[40] L’arte come parola assoluta, p. 218.
[41] Ivi, p. 219.
[42] Ivi, p. 227.
[43] Metafisica dell’arte, «Humanitas», II, 1947, 6-7, pp. 598-610, pp. 706-714; ripubblicato in Metafisica dell’arte, in «Philosophia», V, 1949, 11-12, Universidad Nacional de Cuyo – Facultad de Filosofia Y Letras, Mendoza (Argentina), 1949, pp. 81-106. Il saggio dà, infine, il titolo alla monografia Metafisica dell’arte e altri saggi, Liviana, Padova, 1948 (p. 14 per la citazione, citiamo dalla monografia).
[44] Ivi, p. 17.
[45] Ivi, p. 23.
[46] Ivi, p. 25.
[47] Ivi, p. 27.
[48] Ivi, p. 39.
[49] Ivi, p. 87. È la relazione presentata a Gallarate nel 1946 col titolo Essenza e valore della filosofia moderna e pubblicata nei relativi Atti (Filosofia e cristianesimo, Marzorati, Milano,1947, pp. 59-67).
[50] Ivi, p. 88. L’ammirazione nei confronti dell’efficacia dell’immagine nella filosofia medievale si legge anche da queste espressioni: «Un vivo senso creaturale si alimenta in tal modo della stessa disposizione mistica a trascendere le creature, e una capacità costruttiva edifica le opere di una civiltà, protesa oltre se stessa in elevazione liturgica e pur impegnata ad esprimere, nei limiti dell’umano e del terreno il più alto valore che anticipi efficacemente l’adempimento ultramondano» (Ibidem per la citazione).
[51] Ivi, p. 89.
[52] Ivi, p. 95.
[53] Ivi, p. 96.
[54] Ivi, p. 97.
[55] Ivi, p. 98.
[56] Ivi, p. 99. La novità e l’originalità della posizione di Stefanini è apprezzata anche da V. STELLA, Aspetti e tendenze dell’estetica italiana odierna, «Giornale di Metafisica», XIX, 1964, 3, pp. 280-329 (pp. 307-316 per Stefanini): «Possiamo assumere questa [Metafisica dell’arte] a preferenza dello stesso Trattato, dall’andamento a volte estensivo o specificativo di risultati ormai raggiunti, come lo specchio più limpido della sistemazione dell’estetica stefaniniana nel largo raggio della sua proiezione speculativa. Qui l’indagine comincia dalla considerazione dell’insufficienza logico-matematica e illuminista dell’adempimento di un sapere che comprenda in sé i motivi più delicati e complessi della spiritualità: l’arte, la vita morale e religiosa» (p. 307). Se il giudizio dello Stella sull’opera di Stefanini non è sempre positivo per mancanza di consenso di fondo, essendo la posizione di Stella di un convinto idealismo, più sfumate sono le osservazioni su Metafisica dell’arte, che «opera per certi aspetti nel senso di un raccostamento dell’analogia al dialettismo. Di là dal momento polemico, ampi riconoscimenti sono dati alle affermazioni concettuali delle estetiche romantiche e idealistiche e al loro implicito cristianesimo. Però il problema dell’analogismo e dell’imaginismo o vi si presenta come riaffiorare di tendenze estetiche peraltro vigorosamente combattute, o rimane sospeso alle formulazioni preliminari dell’indagine, quali furono poste sin dall’Imaginismo, o prende l’aspetto di una decisa assertorietà metafisica. Ma l’evidente destino della filosofia spiritualistica contemporanea non è di restaurare la gerarchia degli enti e delle attività con la sovrammissione di un criterio di verità assertorio, quanto piuttosto di cogliere il riproblemarsi infinito dell’atto come autotrascendimento nell’interiorità di sé a sé che si svolge nella sintesi personale di storicità e valore. E lo spiritualismo in tanto può non essere ripetizione del metafisicismo tomistico o platonico in quanto riesca a diventare acuta coscienza del vivo e presente dialettizzarsi di problema e sistema. Il problema metafisico dell’arte, nella prospettiva stefaniniana, può risultare più proficuo quando sia riguardato come problema della sua creatività» (p. 311). A V. Stella si deve Metafisica dell’arte e parola assoluta, «Rivista di Estetica», I, 1956, 2, pp. 113-122.
[57] Metafisica della forma e altri saggi, Liviana, Padova, 1949. Il saggio Metafisica della forma, che dà il titolo al volume, era già stato pubblicato in «Giornale di Metafisica», II, 1947, 4-5, pp. 439-454 (p. 3 per la citazione). Per i temi affrontati in quest’opera cfr. l’ottimo saggio di G. SANTINELLO, La metafisica della forma di Luigi Stefanini, in Forma, rappresentazione. Struttura. Atti del Convegno di studio a Padova 3-6 dicembre 1986, a cura di O. LONGO, Laboratorio Servizio Tecnologia, Napoli 1989, pp. 149-153. Santinello esamina in particolare gli esiti della Gestalttheorie in Stefanini: «è innegabile che la ripresa agli inizi degli anni Cinquanta in Padova di questo tema, da parte di un filosofo di formazione e di simpatie idealistiche e spiritualistiche ha una sua rilevanza. C’è anzitutto un significato storico in relazione ad una certa tradizione che collegava Padova assieme a Trieste alla cultura mitteleuropea fra Ottocento e Novecento. Notevole anche il fatto che l’iniziativa partisse da un filosofo amico dell’idealismo, data invece la poca amicizia intercorrente tra idealismo attualistico e psicologia» (p. 152).
[58] I fondamenti dell’estetica, in Estetica. Atti del VII Convegno di studi filosofici cristiani tra professori universitari, Gallarate 1951, Liviana, Padova 1952, pp. 21-26. È lo schema introduttivo alla relazione, molto più ampia, che verrà pubblicata nello stesso volume (pp. 41-68) e in «Giornale di Metafisica», VII, 1952, 1, pp. 2-26.
[59] Ivi, p. 21.
[60] Ivi, p. 26 (il corsivo è nostro).
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